Omelia per l’inizio del ministero di parroco di don Fabrizio Caucci – Solennità di Tutti i Santi

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 Le beatitudini del pastore

Omelia per l’inizio del ministero di parroco di don Fabrizio Caucci

Solennità di Tutti i Santi – Santopadre, 31 ottobre 2015

 

Annunciare le beatitudini cristiane significa misurarsi con la cultura dominante del mondo contemporaneo la quale propina le sue proprie ammiccanti beatitudini, in posizione diametralmente opposta allo spirito del vangelo. Al confronto con la mentalità diffusa, la pagina della liturgia odierna risulta “proibitiva”, fuori luogo, fuori tempo massimo per poter essere anche soltanto sfiorata o sfogliata dal lettore. Per tale ragione la situazione del discepolo è simile a quella dei profeti di un tempo, perseguitati e rifiutati (Mt 5,12).

            Le beatitudini, oppio del popolo

Perché tanto discredito sulle beatitudini? Per molti sembrano parole illusorie, che servono solo a narcotizzare le frustrazioni di persone deboli, parole insignificanti rispetto allo stile muscolare della logica mondana prevalente. Sembrano solo parole consolatorie per sostenere la fatica degli insuccessi e dei fallimenti irreparabili. Possono avere la funzione lenitrice di un rifugio e di una protezione psicologica, un aiuto per non soccombere alla disfatta delle proprie impotenze. La felicità relagata alla fine del tempo rischia di essere considerata una manipolazione religiosa. Porta con sé il sospetto di un espediente che addormenta le coscienze, con il solo risultato di prolungare le sofferenze della vita presente.

Da credenti, invece, riteniamo che le beatitudini siano parole rivoluzionarie, la strada per una felicità paradossale eccezionale, da poter sperimentare già ora. E’ la vera “carta magna” che apre un programma di azione, più che addormentare la coscienza e la responsabilità. Sono parole che inaugurano l’esperienza del Regno, perché obbligano ad agire e ad impegnarsi a favore della speranza di un modo diverso, trasfigurato, primizia del Regno, inizio concreto e visibile di “cieli nuovi e terra nuova”.

            Il cuore del pastore

Il cuore del vero disceopolo deve essere plasmato dallo spirito delle beatitudini. Ancor più il cuore del prete. Quello del pastore deve essere un cuore convertito dalle beatitudini. Carissimo don Fabrizio queste parole del Maestro desidero meditarle oggi in rapporto soprattutto al tuo ministero di parroco, le voglio riflettere insieme con te e per te. Tu sei stato costituito presbitero per annunciare il Regno di Dio e collaborare nlla sua reale costruzione. E’ da qualche anno che stai servendo il cammmino di fede delle comunità nell’unità pastorale Arpino-Santopadre, con la responsabilità di Amministratore parrocchiale di Santopadre. A partire da oggi vieni chiamato a servire questa comunità in qualità di parroco per esprimere in maniera ancora più stabile e completa la tua dedizione generosa e costante per il bene spirituale e la santificazione dei tuoi fedeli. Le Beatitudini gettano un’intensa luce di santità sul tuo nuovo ministero. Per te rappresentano senza dubbio la via della santità quale “misura alta della vita cristiana ordinaria. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone.” (Giovanni Paolo II, Novo Millennio ineunte n. 31).

In quanto pastore di questa porzione del popolo di Dio ti consegnata la mappa spirituale del tuo agire, da seguire con fedeltà creativa. Lasciati trasformare interiormente dalla forza inaudita degli insegnamenti del Signore. La prepotenza viene dai violenti, ma la vera potenza che sa cambiare lo stato delle cose viene dai poveri e dagli umili, segni della fragilità umana e sociale che però godono della benevolenza divina.

            La povertà del prete

Caro don Fabrizio, ti affido soprattutto la beatitudine della povertà: devi saper vivere non da povero prete da prete povero. Quella della povertà è la prima delle nove beatitudini presentate da s. Matteo. Ma non segna solo l’inizio di una sequenza semplicemente numerica. La povertà è la prima beatitudine soprattutto perchè costitutiva, direi fondativa della possibilità che anche le altre beatitudini si possano inverare. Se il discepolo, e ancora di più il presbitero, non impara il senso della povertà secondo lo spirito, non riuscirà ad attuare alcuna delle successive beatitudini. Cosa significa la povertà del prete? Non si tratta soltanto di un distacco dal possesso o dalla bramosia di beni materiali, ma di saper condividere con i più poveri, vivere personalmente dello stretto necessario, contentarsi del poco, utile ad una vita dignitosa, rispettosa di chi non ha neppure lo stretto necessario per sbarcare il lunario.

La povertà del prete deve evitare il superfluo e lo spreco. La povertà è libertà interiore, custodita anche attraverso la lontananza da ogni forma di potere. Si è poveri perché si fa affidamento sul potere dell’amore del Padre. Il prete vive da povero come Gesù se privilegia quelli che occupano i gradini più bassi della scala sociale. Le stesse beatitudini relativa alla “giustizia” non perseguono l’obiettivo di una illusoria “uguaglianza” tra tutti gli esseri umani, ma piuttosto la difesa della dignità di tutte le persone, e quindi il dovere per i più abbienti di soccorrere le persone più deboli, fragili e umiliate.

Questa è la novità del Vangelo, caro don Fabrizio, che noi come pastori dobbiamo far irrompere nella dittatura dell’individualismo. Dobbiamo saper smascherare il sistema delle false beatitudini di un mondo che tende a far stare sempre meglio chi è già ricco, e condanna alla solitudine dell’indifferenza la gran parte dei più poveri.

+ Gerardo Antonazzo

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