Omelia per la Notte di Natale

stemma-vescovo-sora

La Porta stretta

Omelia per la Notte di Natale

24 dicembre 2015

 

La celebrazione della nascita del Signore è stata preceduta dall’inizio dell’anno santo straordinario della misericordia. Attraversando la Porta santa ci siamo messi in cammino, come i pastori, per andare incontro all’amore di Dio, rivelatosi nella carne di un Bambino sconosciuto. Il Natale ci dimostra che questa Porta non era chiusa, ma solo accostata: in realtà noi non l’abbiamo aperta, perchè è stato sufficiente spingere per spalancarla. Per aprire una porta ci vuol ben altro; noi l’abbiamo trovata socchiusa, perchè Dio l’ha attraversata prima di noi per venirci incontro: “Quando al mattino mi sveglio e innalzo a te il mio spirito, Signore, Dio mio, tu sei il primo, tu mi ami sempre per primo. E’ sempre così: Tu ci ami per primo non una sola volta, ma ogni giorno, sempre” (Soren Kierkegaard).

La debolezza dell’onnipotenza

 

Dio ci raggiunge attraverso la Porta stretta della nostra umanità ferita. Gesù nasce in una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Cristo nasce varcando la porta stretta dell’emarginazione, privo di un guanciale. Un luogo di quotidiana miseria e semplicità diventa il centro di una speranza cosmica. E’ famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine “evangelo” per la nascita dell’imperatore Augusto: “La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della buona novella (evangelo) per il mondo”. Un evangelo, questo, proclamato nei palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo. Quello della nascita di Gesù è un evangelo proclamato in una mangiatoia e riconosciuta da pastori inaffidabili, sprezzanti e disprezzati. Dio varca la porta della nostra debolezza, non si vergogna di noi pur di entrare nella miseria degli uomini. Varca la porta della periferia del mondo, si sottopone al rifiuto dal momento che “per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7). Nessuno si accorge dell’evento che cambierà le sorti del mondo. Questo è lo stile di Dio: silenzio, nascondimento, rinuncia, nudità, solitudine. Con questa scelta Dio ha messo in secondo piano la sua onnipotenza per rivelarsi nell’impotenza e nell’insignificanza.

            La porta stretta

Non abbiamo scampo, non ci sono più alibi: dobbiamo imparare a rinunciare alla porta larga e spaziosa dell’orgoglio per passare attraverso la porta stretta dell’umiltà: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7, 13-14).

A Betlemme si erge la basilica giustinianea, iniziata però da s. Elena nel IV sec. Una basilica ancora oggi intatta, mai distrutta: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata a Maria venerata anche da loro; i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano osservato la sfilata dei Magi rivestiti dei costumi persiani. Questa basilica conserva ancora oggi come ingresso una piccola porta, stretta e bassa. Per entrare è necessario “piegarsi” chinando la schiena. Questa porta immette sul luogo della nascita del Salvatore: “Hic de Virgine Maria Iesus Christus natus est”. Per incontrare il Signore siamo obbligati a piegare ogni forma di alterigia, per amare nell’umiltà del nascondimento e nella fatica delle umiliazioni. Non è l’ossessione del potere che ci rende importanti, ma la gioia di servire anche dinanzi alle incomprensioni, agli attacchi ingiustificati, agli insulti sprezzanti. E’ la porta stretta e santa del bene che ci costa seminare, della compassione che ci destabilizza, della tenerezza che ci disarma : “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti” (1Cor 9,22). E’ anche la porta stretta della sensibilità ecclesiale che dobbiamo accrescere come cristiani: l’obbedienza è una porta che ci sta stretta rispetto alle nostre rivendicazioni, pretese, posizioni e visibilità di primo piano. Anche nelle comunità cristiane ci sono segni di arroganza e di prepotenza. “Uomo di Chiesa” non è colui che va spesso o sempre “in chiesa”, ma chi vive l’amore per la Chiesa con fiducia, docilità, affidamento e obbedienza ai pastori. L’autentica sensibilità ecclesiale è la porta stretta del servizio alla Chiesa per edificare e non per denigrare e distruggere le persone. Non appartiene alla Chiesa la porta larga e spaziosa delle rivendicazioni di natura sindacale, finalizzate alla difesa di presunti diritti, di privilegi, di potere, di prestigio, di protagonismo e di riconoscimenti pubblici.

            La nostalgia di casa

Il Natale della misericordia ci ricorda che la porta di casa è sempre aperta, e la Chiesa è una casa aperta. Il Natale della misericordia deve suscitare in tutte le comunità cristiane l’apertura della porta del cuore per accogliere, comprendere, abbracciare, soprattutto cercare quanti si sono allontanati da casa, dal tempio, dalla nostra comunità. E’ urgente uscire dalla porta del cuore per andare in cerca di coloro che non ci cercano più, che si sono allontanati sbattendo la porta, delusi da una Chiese matrigna e fredda nei riti, nelle parole, nei gesti, nei rapporti, nelle regole.

Rivolgo un particolare appello a quanti pensano di barattare la fede cristiana con altre esperienze pseudo-religiose, lasciandosi vincere dall’incanto di insegnamenti ingannevoli e dal canto di sirene senza scrupoli che inneggiano ad una fede senza sacramenti, senza Parola di Dio, senza la guida dei pastori, strumentalizzando la buona fede della nostra gente, il malumore, il malcontento dovuto a possibili incomprensioni. La misericordia può risanare ogni ferita che può aver procurato dissapori e dispiaceri. A quanti hanno abbandonato la propria comunità parrocchiale chiedo di poter sentire la nostalgia di casa, nostalgia del profumo di Chiesa dove siamo nati alla vita della fede con il sacramento del battesimo.

L’anno santo della misericordia attiri i nostri cuori alla dolcezza della fede autentica della Chiesa, nutrita di sana dottrina e alimentata dalla grazia dei riti sacramentali che educano la nostra sensibilità umana a cogliere l’opera concreta, incarnata, di Dio. Il Verbo di Dio si fa carne per farsi “pane” nel cibo della Parola e dell’Eucarestia. Chiedo a tutti i sacerdoti, agli operatori pastorali, ai collaboratori parrocchiali, ai fedeli di ogni comunità di prodigarsi per cercare e abbracciare con amore quanti hanno deviato, non sempre senza nostra colpa, in proposte religiose distorte, in forme settarie di spiritualità, in gruppi che si improvvisano propinatori di arti magiche di guarigione e di liberazione, in movimenti di ambigua spiritualità.

Tocca a ciascuno di noi manifestare il volto materno della propria parrocchia, senza pregiudizi, giudizi e condanne per convincere gli altri della bellezza di essere Chiesa. Lasciamoci guidare dalle parole dell’apostolo: “Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 3), il vincolo della vera pace che Gesù viene a donarci con il suo amore umile.

+ Gerardo Antonazzo

Categorie: Diocesi,Documenti e Omelie

Tags: