Omelia per la festa di s. Benedetto

Stemma Finis Terrae Mons. Gerardo Antonazzo

Amare con carità sincera

 

Omelia per la festa di s. Benedetto

Cassino-Chiesa Madre, 21 marzo 2017

L’attualità della tradizione monastica benedettina riconsegna ancora oggi alla Chiesa e alla società civile la memoria operosa del lievito del vangelo, tradotto nella sapienza della Regola. Le parole con le quali oggi la liturgia ci invita a pregare dopo la comunione eucaristica, rimanda in modo immediato ad uno dei moltissimi aspetti della sapienza benedettina: il dovere di unire la lode di Dio con l’ospitalità e l’accoglienza. Così recita il testo liturgico: “O Dio…fa’ che, secondo lo spirito di s. Benedetto, celebriamo fedelmente la tua lode e amiamo i fratelli con carità sincera” (Preghiera dopo la comunione).

 

Onorare tutti gli uomini

 

La presenza dell’altro è dono, sempre. Soffriamo tutti il peso dell’individualismo edonistico e dell’indifferenza ottusa di stampo egoistico, disumane chiusure verso le invocazioni di aiuto, i bisogni, le fragilità, le povertà degli altri. Questo “mutismo” del cuore giunge a diventare anche sclerocardia spirituale di fronte alla fragilità dell’altro, perdita di ogni sensibilità emotiva e affettiva. S. Benedetto ha trasmesso alla società del suo tempo un nuovo sguardo sull’uomo, su ogni uomo. Ha trasmesso lo sguardo di Cristo, uno sguardo che rigenera la  relazione, sguardo di nuova civiltà, di nuova cultura, di nuovo umanesimo. Nel clima di decadenza culturale e sociale in cui viviamo oggi, ci chiediamo: possiamo ancora imparare qualcosa, ispirarci a qualcuno, cercare di capire cosa fare per non indurire il cuore? La cultura cristiana deve saper offrire quell’umanizzazione dei rapporti che salva dalla deriva omicida, e ultimamente suicida, a cui assistiamo con un amaro sentimento di impotenza e di sconfitta.

Nel capitolo sull’accoglienza degli ospiti, s. Benedetto utilizza un’espressione bellissima, e non facile da esprimere in traduzione: chiede che all’ospite “omnis…exhibeatur humanitas”. Ciò significa che all’ospite, chiunque questi sia, gli va sempre dimostrata tutta l’umanità possibile (53,9). Questa cura, questa attenzione dimostra cosa significa farsi carico con rispetto e cura della dignità integrale di ogni persona. Credo che questa accoglienza dell’altro con la sua dignità di persona, sia l’apporto sempre attuale che l’insegnamento di san Benedetto può fornire alla società d’oggi. L’ospitalità e l’accoglienza incondizionata si basano su tre principi di civiltà:  sulla dignità della persona; sul valore antropologico della relazionalità, cioè dell’essere “con” e “per” l’altro; sulla moralità evangelica secondo le esigenze della giustizia e della carità.

L’ospitalità è “sacra”

 

Le radici bibliche dell’ospitalità sono toccanti. E’ proverbiale l’ospitalità di Abramo (Gen 18, 1-15). L’ospitalità sorprende sempre, soprattutto chi la pratica: “Abramo alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo”. La quercia, nella Bibbia, è uno degli alberi che indica la sacralità del luogo. Seguendo lo scorrere della vicenda fino alla distruzione di Sodoma, si coglie che il misterioso passaggio dei “tre” ospiti  potrebbe essere in realtà quello di Dio stesso, accompagnato da due angeli. L’accoglienza generosa e ospitale di Abramo merita la benedizione nella forma della straordinaria promessa di Dio di una numerosa discendenza ad Abramo, ormai molto anziano, e a Sara, donna sterile.

Una lettura in chiave cristologica, frutto dell’esegesi patristica, ha visto in questo brano un preannuncio della Trinità, come attesta anche la splendida icona di A. Rublëv. Scrive S. Ilario: «Tre uomini appaiono ad Abramo. Egli, gettato lo sguardo sui tre, ne adora uno e lo riconosce Signore» (De Trinitate IV,25). Così anche S. Ambrogio: “Abramo vide la Trinità sotto figura…accorgendosi di tre persone e adorandone una sola. Vede tre, ma venera l’unità” (De Spiritu Sancto II,4; PL 16,1342). La Lettera agli Ebrei commenta, riferendosi presumibilmente allo stesso episodio di Abramo: “L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Ebr 13,1-2).

Nel racconto dei due discepoli di Emmaus, nell’atto di accogliere in casa il viandante che li aveva affiancati lungo la strada e che ora spezza per loro il pane, i due riconoscono il Maestro: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24, 29).

 

In Apocalisse invece è proprio Gesù  Risorto a chiedere di essere ospitato: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

L’ospitalità di Dio

Dio è colui che accoglie e ospita. E’ soprattutto nella celebrazione eucaristica che ci sentiamo accolti dall’amore del Signore. Lui ci fa tutti suoi commensali perché uditori della sua Parola, ci fa entrare in intimo dialogo nel momento in cui rispondiamo a Lui con la nostra preghiera. E’ la carità divina ci convoca alla mensa eucaristica: Dio ci ospita al banchetto nuziale dell’Agnello, senza esclusioni, senza differenze, da veri fratelli e sorelle: “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. Noi accogliamo il suo invito, consapevoli di non meritare di abitare nella sua casa: “Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. Ed è solo nel suo nome che possiamo scambiarci il segno della pace, dichiarandoci disponibili all’abbraccio dell’accoglienza verso chiunque. Dio è ospitale con l’uomo nel segno del perdono: nella parabola del padre misericordioso, il figlio minore, nel suo ritorno con il cuore contrito, è sorpreso dall’abbraccio dell’ospitalità festosa che gli riserva il Padre, tanto da suscitare la gelosia e la mormorazione del fratello maggiore.

L’ospitalità del nuovo Israele

La Chiesa non può mai trascurare il valore e il dovere dell’accoglienza. Presso il popolo di Israele, l’accoglienza dell’altro, soprattutto alcune categorie sociali meno tutelate e difese (vedove, orfani, forestieri-stranieri), era espressa in termini perentori: “Il Signore rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto” (Dt 10,18-19). Qui è proprio Dio che comanda agli israeliti di amare lo straniero (immigrato), per imitare Lui stesso che ama il forestiero.

L’immagine significativa della Chiesa come ospedale da campo esprime con vigore la natura ospitale della comunità cristiana e di ogni discepolo. In effetti, il termine ospedale e ospitalità godono di una stretta parentela lessicale, soprattutto di una sostanziale affinità di significato. Nel Messaggio per la quaresima 2017, papa Francesco invita ad “aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto”. L’appello con cui inizia il messaggio “Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono”, spiega che la giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore.
Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita, e la quaresima può essere “un tempo propizio per aprire la porta ad ogni bisognoso e riconoscere in lui o in lei il volto di Cristo”.

 

+ Gerardo Antonazzo

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