Omelia per la celebrazione delle Ceneri

Stemma Finis Terrae Mons. Gerardo Antonazzo

Conversione, non maschere

 

Omelia per la celebrazione delle Ceneri

1 marzo 2017

La celebrazione delle Ceneri invita ad un “cammino di vera conversione”. Dunque, sin dall’inizio la quaresima ci obbliga a fare sul serio, perché impegnati nel duro combattimento “contro lo spirito del male”. E non bastano alcune pratiche religiose esteriori, formali, rituali, ossessivamente osservanti. Gesù nel vangelo va al cuore del problema, e fa riferimento almeno a quattro ‘buone azioni’ compiute male : praticare la giustizia, il digiuno, la preghiera, la carità. Perché l’impegno quaresimale sia fruttuoso, e non una parata parareligiosa, la nostra conversione deve essere vera, completa, inquieta e missionaria. E’ quanto apprendiamo oggi dalla Parola e dalla preghiera della Chiesa.

Volti, non maschere

La denuncia è inequivocabile: “la vostra giustizia…per essere ammirati da loro; l’elemosina…per essere lodati dalla gente; pregate …per essere visti dalla gente; digiunate…per far vedere agli altri che digiunate”. Le ragioni sbagliate nel compiere queste azioni rischiano di invalidare il loro significato e valore di fronte a Dio. Potrebbero valere poco, o nulla; è solo questione di ipocrisia! Giù le maschere! Cambiare, dunque, per non continuare a nascondersi. Dio non dipinge maschere, ma rigenera volti, storie, persone. Se la quaresima è “tempo favorevole”, allora è arrivato finalmente il tempo di cambiare. L’investimento richiesto per tale metamorfosi è totale, ed è bene esplicitato nella preghiera di benedizione delle ceneri, nella quale si chiede al Signore che i fedeli “giungano completamenti rinnovati a celebrare la Pasqua”. “Completamente rinnovati” è espressione audace, nonché scomoda ed esigente, perché conversione deve significare “trasfigurazione”. La nostra conversione è “vera” quando cambia il cuore, e quindi la vita, perché se non cambia il cuore non cambia nulla. La conversione ci impegna in una mutazione interiore, nel cambiamento di mentalità, per valutare tutto secondo la logica di Cristo: “Noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Il discernimento sulla nostra vita personale deve essere operato secondo il pensiero di Cristo, per andare nelle profondità dei nostri processi interiori, e lasciarci scardinare da complicità e compromessi radicalizzati, vizi e difetti ai quali ci siamo assuefatti, adagiati e rassegnati, senza più né voglia né forza per reagire. Con la propria coscienza non si può barare, altrimenti è la distruzione interiore. La nostra conversione è vera se facciamo verità su noi stessi, senza finzioni, senza maschere, senza paure, senza difese e resistenze.

 

L’inquietudine della conversione

Con il male non si scende a compromessi, non si deve convivere. Mai! All’annuncio del profeta “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43, 18-19), fa eco il monito dell’apostolo: “Le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).

Il termine “conversione” non va tanto inteso come “tornare indietro”, quindi cambiare strada, significa piuttosto “cambiare rotta”, ritornare a camminare nella direzione giusta, cioè verso il Signore. Questo richiede dare inizio a “cose nuove”, a scelte diverse, per favorire una nuova vita spirituale, morale e sociale. Il termine greco usato nei vangeli (metanoéin)  lascia intendere il bisogno di correggere il cammino per non sbagliare bersaglio e guadagnare il traguardo, che è Cristo. La forza di questa correzione-conversione è l’inquietudine: “Ci hai fatti per Te, e  il nostro cuore è inquieto  finché non riposa in te”. Ciò che ha portato s. Agostino alla conversione è stata la forza dell’inquietudine, che non è riuscito a tacitare nè a soffocare. L’inquietudine lo ha obbligato ad ascoltare la sua coscienza interiore, senza più ostruzionismi di sorta. L’inquietudine è la forza del cambiamento più radicale, è la sorgente delle decisioni importanti, è l’inizio di una vita veramente nuova. L’inquietudine ci stana dalla tentazione della doppia vita”, nella quale si continua a seguire le proprie passioni, continuando a nascondersi. L’inquietudine ci obbliga a non rimandare la conversione.

La “riforma” della Chiesa

Non si deve rimandare la conversione nemmeno nella vita della Chiesa, la quale è chiamata a lasciarsi attraversare dal fremito dell’inquietudine pastorale e missionaria. Ciò significa non darsi pace, rispetto alle sfide e ai bisogni del mondo contemporaneo. Come parlare del rinnovamento della Chiesa senza il rilancio della nostra azione evangelizzatrice? La più vera riforma della Chiesa è la sua conversione missionaria, saper affrontare le sfide della contemporaneità segnata da una cultura e stili di vita  contagiati da edonismi, consumismi e agnosticismi; quella dei molti temi delle bioetica sempre più pressanti, delle situazioni difficili (separati e divorziati risposati, unioni libere di fatto, unioni di persone della stesso sesso, apertura degli sposi alla vita, etc.). Così il Papa: “Una pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”, richiede audacia ed esige creatività, obbliga a “ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (Evangelii gaudium, 33).

L’inquietudine deve spingere la Chiesa (in)uscita verso il territorio,  capace di accogliere e comprendere la vita reale della gente, le sue istanze e invocazioni, per aiutarla a crescere gradualmente nella fede. Significa risvegliare nei battezzati la nostalgia della bellezza spirituale, la voce forte e inconfondibile della coscienza, la cura della propria interiorità, il nutrimento dell’anima, la verità della ragione e le ragioni della verità. L’impegno della Chiesa italiana all’inizio del millennio è stato scandito da questo annuncio: “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”. Le situazioni continuano a cambiare, non il nostro modo di evangelizzare. Cambia il mondo, e noi rischiamo di non cogliere i germogli nuovi della storia. Non si tratta, certo, di effettuare semplicistici aggiustamenti, rattoppi  su un tessuto pastorale consunto e deteriorato: “Il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore (Mc 2,21).

La conversione pastorale comporta la conversione del pastore a Dio, la conversione di una comunità, e la conversione delle stesse strutture ecclesiali. La conversione pastorale deve essere una conversione “missionaria” del pastore e della comunità, convinta e decisa ad uscire dalle proprie sterili tradizioni e abitudini, per cercare quanti si sono allontanati, coloro che non ci sono e che difficilmente torneranno. La conversione deve essere “comunitaria”, non di alcuni né di pochi, perché se non riguarda tutti non sarà di nessuno, e non si cambierà in nulla. E’ una svolta di Chiesa, perchè fraterna e sociale. Nella missione ad gentes l’annuncio decisivo è il kerygma, l’annuncio di un Padre che, in Gesù morto e risorto ama incondizionatamente, e oggi offre suo Figlio risuscitato affinché entriamo in comunione con lui: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti” (Evangelii gaudium, n. 164). Il rinnovamento pastorale di ogni comunità ci apra ad una vita pienamente fraterna e socialmente impegnata, perché si realizzi una “conversione sociale” che ci aiuta a guardare nella giusta direzione.

 

 

+ Gerardo Antonazzo

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