Omelia del Vescovo Gerardo per la s. Messa in suffragio della sorella Ada

stemma vescovo sora

NELL’ATTESA DELLA TUA VENUTA

 

Omelia per la s. Messa in suffragio della sorella Ada

Sora, 28 aprile 2014

Carissimi amici presbiteri, Religiose e Religiosi, Signor Sindaco e Autorità, amati fratelli e sorelle,

desidero innanzitutto parteciparvi la viva gratitudine per la vicinanza premurosa e cordiale a me e ai miei familiari, nutrita di sincero affetto e di intensa preghiera, per l’evento doloroso della morte di mia sorella Ada. E grazie anche per questo supplemento di amicizia spirituale con la celebrazione eucaristica odierna. Ringrazio con la medesima riconoscenza quanti non hanno potuto essere presenti fisicamente a questa sacra liturgia, ma certamente uniti nei sentimenti e nella preghiera unanime.

La corrispondenza temporale tra l’evento della morte di Ada e la celebrazione del Triduo pasquale, ha sprigionato un fascio di intensa luce sull’evento doloroso, illuminandolo di una consolazione spirituale molto speciale.

La forza escatologica della Pasqua e dell’Eucarestia

La mia meditazione prende spunto dalla preghiera della Colletta di questa liturgia feriale del tempo pasquale: “Dio onnipotente ed eterno, che ci dai il privilegio di chiamarti Padre, fa’ crescere in noi lo spirito di figli adottivi, perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso”.

La Chiesa, celebrando il mistero pasquale con i suoi riti e i suoi simboli (cero), annuncia la speranza della Pasqua eterna. Il cristiano, mentre celebra la presenza del suo Signore risorto, sa “attendere” il suo ritorno. Dalla Pasqua e dall’Eucaristia, memoriale della Pasqua, deriva la speranza che anima l’impegno operoso sulla terra, nell’attesa del destino futuro. La Chiesa pellerginante nel tempo vive «in attesa della beata speranza» (Tt 2,13) della venuta del Signore.

“Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo” (S C 8).

Il rito eucaristico, pervaso da una costante tensione escatologica, alimenta la forza del nostro pellegrinaggio verso l’incontro ultimo e definitivo con Cristo, e annuncia il senso autentico della nostra esistenza terrena. L’invocazione della prima comunità cristiana “Vieni,Signore Gesù” era alimentata dalla certezza del ritorno del Signore; e tale speranza veniva celebrata nel rito eucaristico. Nella celebrazione eucaristica, la Chiesa professa ripetutamente la sua speranza nella venuta del Signore: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Tutta la nostra esistenza cristiana si compie nell’attesa della venuta del Signore risorto. E’ Lui “la via, la verità, la vita” (Gv 14,6).

Anche nella preghiera di liberazione dal male che la Chiesa recita dopo la preghiera corale del “Padre nostro” si chiede a Dio di vivere “sicuri da ogni turbamento, nell’attesa della che si compia la beata speranza, e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”.

La comunità che celebra la memoria della morte e risurrezione del Signore è proiettata verso l’incontro definitivo con lui: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26). Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro deli santuario e del vero tabernacolo” (S C 8). La IV preghiera eucaristica si esprime cosi: “In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo dove siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue …”.

Credere significa sperare che la vita e la morte, la sofferenza e la tribolazione, la malattia e le catastrofi non sono l’ultima parola della storia, ma che c’è un compimento trascendente per la vita delle persone e il futuro del mondo.

La morte come passaggio

L’esperienza della morte, umanamente enigmatica e dolorosa, soprattutto quando è segnata dalla malattia e ancor più dal dolore fisico, è considerata come la “pasqua” ultima del credente, il suo definitivo passaggio dalla condizione terrena a quella celeste. Questo passaggio avviene in termini di “trasformazione”: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata. E mentre viene distrutta la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo” (Dal Prefazio dei Defunti, I).

La morte non distrugge, non annulla, non disperde nessun elemento della nostra vita, ma mette il sigillo della sua protezione, perché tutto ciò che abbiamo compiuto resti custodito.

La morte non vanifica nulla, nulla è insignificante o banale di quanto abbiamo realizzato. Abbiamo un tempo limitato, determinato, per realizzare la nostra esistenza, e la gravosa responsabilità di vivere nel compimento del bene (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1007). Nulla possiamo cambiare della nostra vita dopo la morte.

“In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani?” (De imitatione Christi, 1, 23, 5-8). La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino.

La morte come consegna

Gesù muore in un atto di abbandono totale: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Anche il ladrone pentito nell’atto del suo morire sa consegnarsi a Qualcuno: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).

Con la morte ogni creatura riconsegna a Dio, Creatore e Padre, la propria esistenza terrena. E’ importante tenere vigile in modo permanente la consapevolezza che quanto viene sigillato con la morte resta per sempre davanti a Dio. Ci troveremo davanti a Dio così come siamo da Lui raggiunti nell’atto del nostro morire. Con la morte ciò che è stato realizzato nella nostra vita, entra definitivamente nella dimensione dell’eternità, sia il bene, sia il male compiuto nell’arco degli anni della nostra vita.

Accogliendo la vita che ritorna a Lui, Dio “eternizza” il bene da ciascuno compiuto, trasformandolo in felicità eterna: “Venite benedetti del Padre mio…” (Lc 25, 34).

Questa consapevolezza dà importanza e valore a tutto quello che noi facciamo in vita: per sperare di “morire nel Signore”, bisogna imparare a “vivere” per il Signore. La condizione in cui saremo dopo la morte è strettamente dipendente dal modo in cui avremo vissuto nell’esilio terreno. Con la morte vivremo in una condizione diversa, ma non saremo diversi, e ci consegneremo al Signore con la nostra concreta storia vissuta sulla terra.

“E udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: d’ora in poi, beati i morti che muoiono nel Signore. Sì – dice lo Spirito -, essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).

              + Gerardo Antonazzo

Categorie: Diocesi,Documenti e Omelie