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“Le sfide di una Chiesa sinodale” – Relazione del Card. Matteo Zuppi (Seminario teologico-pastorale “Buone pratiche sinodali” – Isola del Liri, 15 febbraio 2023)

SEMINARIO TEOLOGICO-PASTORALE

 

LE SFIDE DI UNA CHIESA SINODALE
Card. Matteo Zuppi

Isola del Liri, 15 febbraio 2023

 

Avete avuto due forse due tra le persone più importanti veramente del cammino sinodale, del Sinodo in assoluto nella Chiesa, perché il cardinale Mario Grech è Segretario della segreteria del Sinodo, quindi è colui che per tutta la Chiesa, nel mondo, sta preparandola al prossimo Sinodo, che è – come forse sapete – sulla sinodalità, e che si terrà in due momenti: a ottobre di quest’anno 2023 e a ottobre dell’anno prossimo 2024. Uno potrebbe dire: “Ma certo, un Sinodo sulla sinodalità sembra un corto circuito”, oppure: “Sembra, certo, che non avete proprio più niente da inventarvi, se dovete fare il Sinodo sulla sinodalità. Invece – come credo vi abbia comunicato con la passione che ha il cardinale Mario Grech -quanto sia decisivo per la Chiesa parlare della sua sinodalità, della Chiesa ovviamente sparsa nel mondo. Quindi potete immaginare la fatica che farà, che ha già fatto e che farà, per trovare il denominatore comune di situazioni diversissime, dall’America Latina all’Oceania, all’Europa, l’Africa, l’America del Nord: situazioni molto diverse tra di loro e che tutte quante chiedono appunto come camminare insieme. Credo che vi abbia detto come il Concilio Vaticano II abbia regalato alla Chiesa la collegialità – cioè i vescovi che insieme affrontavano i problemi che riguardavano le loro diverse Chiese – mentre ora certamente c’è tanto bisogno di capire la sinodalità, cioè: tutto il popolo, come camminare assieme? Quali sono i modi con cui possiamo camminare insieme? Sinodo, come sapete, significa questo.

E poi Mons. Erio Castellucci, che è colui che per tutta la Chiesa italiana presiede la commissione che prepara e guida il cammino sinodale. C’è differenza tra Cammino sinodale e Sinodo, che può sembrare un po’ semantica. Invece è molto importante, perché i Sinodi hanno delle regole, il vostro Vescovo vi può dire con molta esattezza tutte le regole che le diverse Chiese possono darsi. Per esempio la diocesi di Roma fece un Sinodo che cominciò il cardinale Poletti e poi lo concluse il Cardinale Ruini, e quando arrivò il cardinale Vallini chiese: “Beh, ripartiamo dal Sinodo” e fu un problema perché tutti quanti dissero: “Che cosa?”, perché il Sinodo produsse un documento che fu immediatamente messo in biblioteca per cui dovettero ritrovarlo, per ricordarsi che cosa avessero detto!

Io mi auguro che le cose che troveremo nel nostro cammino sinodale poi aprano davvero ad una consapevolezza, una determinazione, a decisioni che ci permettano di essere capacci di rispondere alle sfide di oggi. Questo è il nodo. Monsignor Erio Castellucci – che sicuramente vi ha coinvolto con la sua passione per il Cammino sinodale della Chiesa Italiana – credo che abitualmente parli poco del Cammini sinodale in senso tecnico, e molto del perché farlo. Io credo che questo sia molto saggio, altrimenti rischiamo di pensare che i problemi si risolvano a tavolino, si risolvano stabilendo delle regole, prendendo delle decisioni: il rischio che facciamo come il Sinodo della Chiesa romana, cioè grandi decisioni, magari anche qualche volta frutto di qualche litigio, perché giustamente anche nella Chiesa ci possono essere sensibilità diverse. Ma la Chiesa non è mai un partito, mai; ho l’impressione, qualche volta che in qualche agonismo diciamo così intra ecclesiale, si finisce per pensarla, per ridurla a partito. Nella Chiesa siamo fratelli e viviamo tra fratelli. Direi che dovrebbe essere così anche da noi: cioè che il vero partito unico è la madre Chiesa, che è quella su cui poi tutti quanti dobbiamo sintonizzarci, per poter essere fratelli, con la discussione, con la sensibilità, con le ricchezze di ognuno, tutte importanti. Ma se poi non amiamo, non ascoltiamo, non obbediamo alla madre Chiesa, rischiamo appunto di rendere questo un esercizio sterile, oppure un esercizio per noi, mentre sappiamo che la Chiesa non vive per sé stessa.  Per questo molto apprezzato il titolo della vostra riflessione, perché siamo davanti alle sfide del mondo, sono quelle che ci debbono interrogare e quindi anche nel renderci consapevoli di come possiamo rispondere. Queste sfide che cosa ci chiedono? Anche perché le sfide sono per certi versi sempre le stesse, ma anche sempre diverse, e anche noi non siamo sempre gli stessi; e la Chiesa è sempre la Chiesa, la nostra madre, a cui siamo affidati e che il Signore ci affida e che cambia. Quando vogliamo che sia sempre la stessa vuol dire che siamo diventati vecchi, c’è poco da fare. In genere quando uno comincia a dire: “Spero di restare quello che sono”, vuol dire che è diventato vecchio. Qualcuno comincia già in anticipo, comincia a farlo già da giovanotto, cercando di restare quello che è.

Credo che invece la spinta di Papa Francesco, la visione di Papa Francesco sia di una Chiesa – come giustamente ha accennato il vostro Vescovo, e so quanto è cara al vostro Vescovo – il coraggio di una nuova immaginazione del possibile. Guardate che non è come dire frasi fatte: il coraggio di una nuova immaginazione che non sia buttarci sull’onirico – che vuol dire i sogni, i sogni fuori dalla realtà – per questo giustamente il Vescovo ha ripreso “del possibile”, cioè che è qualcosa che entra nella nostra vita, che possiamo compiere tutti quanti, che fa parte del nostro cammino. Quindi la scelta della Chiesa italiana è stata di non fare un Sinodo con tutte le regole, in cui si passa tanto tempo per prepararlo, ci si scanna prima e poi dopo c’è un po’ di svolgimento e tutto quanto deve stare all’interno di…… Mentre invece la preoccupazione nostra –  in realtà è la preoccupazione di Papa Francesco – è di rimetterci in cammino, non tra di noi perché il rischio è che comunque sia una logica interna – ma di metterci in cammino nelle strade di tutti, con i tanti compagni di strada, con quelli che ti trovi, che non te li scegli tu: te li ritrovi. Pellegrini come noi. Ecco, dunque, la prima notazione di questa sera: il cammino sinodale, che vuol dire semplicemente che dobbiamo camminare insieme! Non come – io non ho fatto il militare – quando si sta nel cortile di una caserma e si battono i piedi continuamente per marciare uniti al comando di uno solo. Oppure in una rotonda stradale, dove qualche volta possiamo avere l’impressione che in fondo ci giriamo intorno. No, no, ma fare il cammino insieme: vescovi, preti, religiosi, consacrati, laici sparpagliati, laici che non sanno bene che cosa sono…Come camminare? Questa è la domanda, e credo che sia appunto una bellissima domanda, che ci aiuta a rispondere a quella nuova immaginazione che è tutt’altro che fantasia. Qualche volta scambiamo la creatività per fantasia, come nei programmi pubblicitari. La nostra immaginazione è quella di rispondere alle domande, e per rispondere dobbiamo farle nostre, dobbiamo capirle, dobbiamo ascoltarle, dobbiamo essere vicino. Ricordatevi sempre quello che con tanta insistenza Papa Francesco ci ha chiesto in tanti modi: dobbiamo toccarle: cioè una cosa è che parliamo di, altro è sentire l’urgenza, le difficoltà, le paure, le angosce, le speranze della nostra generazione.

Credo che proprio questo è forse una delle cose su cui facciamo anche più fatica: capire perché è importante l’ascolto. Ci stanno quelli che dicono: “Senti: andiamo al sodo”. C’era un parroco a Roma, quando facevamo gli incontri, dopo cinque minuti diceva: “Be’, quagliamo, eh!”.

Poi in genere chiaramente dopo cinque minuti non quagli niente, oppure dici quello che già pensavi prima. L’ascolto non è accessorio, l’ascolto è farsi toccare dalle domande; è anche quello che si diceva prima la vicinanza: non ascolti da lontano, altrimenti pensi già di sapere, devi perderci tempo e devi anche rimetterti in discussione, perché dico: “Ma io tanto quello già lo so. No, non è vero: l’ascolto è qualcosa di profondo, che parte dalla propria condizione. Pensiamo per esempio il discorso dei giovani. Io penso che anche voi vi siate interrogati: com’è possibile che si ammazzi un ragazzino? Ma stiamo scherzando? C’è qualcosa che non va! c’è qualcosa che ci deve ferire, che ci deve interrogare: un ragazzino! e credo che non sia neanche il primo! Questo fa emergere qualcosa di grave che si trova in profondità della qualità della vita. Allora noi poi possiamo dire: “Guardiamo soltanto la punta”. Ma dobbiamo capire quello che ci sta sotto, e dobbiamo farlo sentendo la ferita di questo, del capire, del trovare le risposte. Penso sia anche banale, però è sempre utile non metterci tra quelli che guardano e giudicano; poi spesso lo facciamo, sia personalmente che qualche volta anche come comunità. Diciamo: “Ma guarda come sono ridotti, ma è impossibile!” e via dicendo. No, se non sbaglio nostro Signore ci ha detto di non giudicare, ma che non vuol dire non capire, non discernere, ma ascoltare. Qualche volta, sia personalmente, sia come Chiesa, qualche volta anche noi ci mettiamo nel coro di dire: “Quello è così, quello è così”. Per esempio: un nemico non è il tuo nemico, è tuo fratello, è il mio prossimo, e io devo cercare di liberarlo dalla sua inimicizia e di aiutarlo a riconoscermi, io ovviamente cercherò di non farmi catturare dalla sua inimicizia, per cui divento un nemico anch’io. Io penso che voi avete sicuramente affrontato in questo anno e mezzo tante domande, che non vuol dire avere le risposte, e tantomeno andarle a ricercare da qualche parte o inventarsele. Vogliamo fare una cosa che ti sia davvero rispondere alle sfide, e dobbiamo capire le sfide.

Ci sono due cose che ha detto prima don Gerardo: il coraggio, e lì penso: “Ma dove troviamo il coraggio?”. Sapete di quel famoso [don Abbondio del Manzoni] che uno, da solo, il coraggio non se lo può dare. Al massimo in guerra facevano svuotare qualche bottiglia di grappa e adesso non so che altre cose fanno per dare il coraggio… Dov’è che troviamo il coraggio? Misurandoci tutti noi con le nostre debolezze, i nostri limiti, qualche volta anche con i nostri anni.  Ma io che cosa posso fare? Dove trovo il coraggio? Il coraggio noi lo troviamo sempre e soltanto seguendo Gesù, che ci chiede il coraggio di amare. Io se dovessi lasciarvi veramente quello che per me è chiave per capire quello che stiamo vivendo è Mt 9,35: Gesù vide le folle pecore stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Vide, e non cominciò a giudicarla, vide la folla e non cominciò a fare sociologia, vide la folla, perché in realtà la compassione è molto di più della sociologia, che pure serve, figuriamoci, come anche le statistiche. Una cosa che mi ha impressionato in Emilia Romagna è sapere che un nucleo familiare su tre, uno su tre, è composto da una persona. Oppure che tra dieci anni a Bologna 1 su 4 avrà più di 65 anni. Tenete presente che Bologna accoglie anche tantissimi studenti. A Bologna la natalità è ancora abbastanza alta. Già adesso credo che la natalità più bassa è al Sud perché tutti i ragazzi sono andati nel centro nord. Questo ci interroga, ci deve interrogare, ci deve aiutare. Però la compassione è quello che ci fa sentire la domanda, la sfida che noi abbiamo di fronte.

Qui dobbiamo aprire una parentesi sulle pandemie, perché noi impareremo a essere più uniti quando metteremo da parte i problemi interni, i confronti, la considerazione, i ruoli, per cui quello e quell’altro a cui non si può dire niente, perché lo fa da vent’anni…Perché poi c’è il clericalismo, ma qualche volta c’è anche un clericalismo di ritorno, per cui tante volte la vita delle nostre comunità risulta appesantita, a causa dei confronti, dei ruoli, appunto. Quand’è che li mettiamo un po’ da parte? Durante la pandemia il tasso inevitabile di discussioni e confronti – che poi vuol dire anche: “Con quello non ci parlo più, con quell’altro non gli dico niente perché sennò si infiamma ancor prima che finisco la frase” – è chiaro che nella pandemia dovevamo unirci, dovevamo aiutarci, dovevamo camminare insieme, perchè che non ci si salva da soli… Nella pandemia del Covid abbiamo capito che non avevamo sempre tempo, che bisognava mettersi la mascherina, che bisogna stare chiusi a casa, che dovevamo trovare altri modi. Penso – e adesso dovrei chiederlo a voi, soprattutto alle catechiste – credo che il coraggio di una nuova immaginazione durante la pandemia è venuto quasi istintivamente, Io possono dire le catechiste che si sono inventate di tutto, che hanno imparato per esempio a fare i gruppi WhatsApp, o mini catechesi per cercare di raggiungere i bambini, di tenerli uniti di mandar loro delle cose per stare insieme, eccetera. Diciamo proprio che c’è stata una grandissima creatività, immaginazione, una nuova immaginazione Per cui credo che il salto che abbiamo iniziato a fare – siamo ancora un po’ indietro nella comunicazione, perché molte volte i ragazzi stanno 100 km avanti diciamo a noi in una certa comunicazione e noi arriviamo proprio molto tardi. E’ venuto la settimana scorsa uno dei youtuber più famosi in Italia – don Alberto Ravagnani- che fa delle cose molto immediate, molto fresche e dirette. Ecco è chiaro che lui ha una capacità di comunicazione che io non mi ci metto! Capisco che se vuoi parlare ai ragazzi devi cercare di trovare un modo che sia quello loro comune altrimenti pensano che è una roba bella, importante ma che non che non c’entra con la mia vita.

Guardate, tutti potranno dirvi come le malattie di relazione con gli altri sono aumentate tantissimo dopo il covid-19, in particolare per i più giovani, tanto che non so di quanto siano aumentati i ricoveri nei reparti di neuropsichiatria infantile, o di quanto sono aumentati i giovani i Hikikomori, quelli che stanno a casa. Poi uno si accorge: “Ma mio figlio non esce più, non riesco a staccarlo dalla stanza”. Qualche volta lo colpevolizziamo, oppure lo medicalizziamo troppo, facciamo i due errori opposti: da una parte colpevolizziamo, ma dobbiamo anche provare ad aiutarlo. Come quando c’è la depressione, quella seria. L’opposto è medicalizzare: chiamiamo subito una squadra di esperti, invece qualche volta ci vuole soltanto pazienza, insistenza, tanto amore, tanta attenzione, tanta paternità, tanta maternità, tanta fraternità, tanta fraternità. E se tutto questo viene a mancare – o è ridotto al minimo – le mie fragilità aumentano, per questo penso che come è stato per il covid dobbiamo dare una risposta insieme alle tantissime sfide, perché questa è la grande sfida. La guerra lo è, io penso che dobbiamo tanto pregare, tra poco è un anno, quante persone sono morte! Non dobbiamo dimenticare anche quelle immagini che ci hanno fatto piangere… Non so se vi ricordate di quella famiglia: la mamma con due bambini, con i due trolley; gli è arrivata la bomba e sono morti così, mentre scappavano. Oppure un’immagine di un papà a Mariupol, quella della donna che aspettava un bambino, portata dai quei quattro in quello scenario incredibile di morte, terribile, e la portavano fuori nella speranza di salvare e la mamma e il bambino, e in realtà sono morti tutti e due. Dobbiamo portarcele proprio dentro come dei veri Venerdì Santo, perlomeno pregarci tutte le sere! Penso che tutti noi ci siamo commossi quando papa Francesco si è commosso l’8 dicembre, a Piazza di Spagna, quando disse: “Io volevo venire qui a dire che era finita” – poi non riusciva ad andare avanti – “siamo qui ancora a chiederti di aiutarci a far sì che finisca”. Che voleva dire? che non vedeva l’ora che finisca, che non ci si è abituato! È lì che troviamo il coraggio: questo è quello che vorrei dire. Quando vediamo e sentiamo con compassione le tante domande intorno a noi e diciamo: “Ma come facciamo? Che cosa possiamo fare?”. Come facciamo noi con i nostri figli! Per questo la Chiesa è davvero una madre, che non si può dar pace, e noi non possiamo dire: “Che mi importa, dei figli degli altri?”. No! sono figli tuoi, sono nostri! Il discorso che siamo sulla stessa barca, che se ne esce soltanto insieme è così vero! Questa credo che sia la vera domanda per cui avere il coraggio di una nuova immaginazione e di una Chiesa di vicinanza, come appunto è stato ricordato prima.

Prima è stata usata l’espressione: una Chiesa diversa. Uno dice: “Ma perché diversa?” Qva tanto bene questa. Mettiamola un pochino in ordine, eccetera”. Oppure qualche volta possiamo rischiare di interpretare questo come un po’ assecondare le mode; poi tante volte uno scopre che cambia tutto e non cambia niente. Oppure, per esempio, mettiamo il sinodale, poi continuiamo a fare le cose di prima, solo diciamo che è sinodale: “Adesso facciamo – che ne so – le sagre – però sinodalmente”, cioè sempre la stessa cosa, non cambia. Insomma il sinodale non è un suffisso che mettiamo, perché siccome va di moda il sinodale… Ecco il “sinodale” non è una cosa in più. Noi preti qualche volta pensiamo: “Adesso ci tocca pure fare questa cosa in più”. No, non è una cosa in più, è dire: “Come facciamo le cose di sempre? Ma le faccio da solo, o le faccio con qualcuno? Le faccio perché comando io? e gli altri? e poi qualche volta appunto rischiamo di pensare che tanto l’importante è farle. Non a caso, come avete sicuramente riflettuto, il brano che ci ha accompagnato quest’anno è quello di Marta e Maria. Marta è una che non perde tempo, che quaglia, come avrebbe detto il mio amico parroco, che anzi si infastidisce verso Maria, che in fondo le sembra che la lasci sola. Come spesso avviene con noi: “Gli altri non mi aiutano” facciamo dei confronti. Forse c’è anche un po’ il fastidio di una donna diversa, della vera diversità, perché in fondo tra le due, Marta è se stessa; è Maria che è un po’ diversa, che invece di fare la serva, ascolta e fa la discepola. È forse questo che dava fastidio a Marta: “Vieni a lavorare e non fare la discepola, chi ti credi di essere? Guardate che qualche volta lo facciamo, lo pensiamo anche noi; solo che peccato che Marta perde la parte migliore, che è capire. Perché Maria è importante? Perché Maria ascolta, si ricentra – e il centro è sempre Gesù. Allora noi potremmo dire: “Continuiamo con le cose di sempre” – Marta – “con tutte le cose che abbiamo da fare perdiamo tempo per queste cose qui!”.

Questo non è una cosa in più, anzi. Guardate, forse dovrebbe essere così: “Senti, sai che ti dico? aspetta un attimo, proviamo a ricentrarci”.

Questo è un problema anche spirituale, molto spirituale. Il cammino sinodale è un problema di cuore, di ascoltare lo Spirito, di ascoltare le domande, di guardare con compassione, e quindi di farsi interrogare e di ascoltare Gesù che ci dice, ci chiama per nome e ci manda: Mt 9,35: Gesù li chiamò, e li mandò. E’ quello per cui siamo cristiani. Guarda la folla, e dice: “Guarda questi poveretti, che sono stanchi e sfiniti, non fare come i farisei che giudicano, mettono i voti, condannano. Dategli voi stessi da mangiare”. “Sì, capirai! Io? ho 5 pani e due pesci e sono di Isola Liri, che ne so? Ho tutti i problemi miei…”. “Date voi stessi loro da mangiare, con i cinque pani e i due pesci che abbiamo, che sono i nostri, che sono quello che siamo noi, con la nostra debolezza, con le nostre contraddizioni, con il nostro peccato, con i nostri limiti, ma li superiamo donando, vincendo la paura di non farcela: “Ma come facciamo? perdiamo tutto! dobbiamo andare a prendere… non lo troveremo mai, non daremo niente a qualcuno!” Comincia a donare, a condividere. Una delle cose che dà fastidio – soprattutto un po’ i preti, devo dire sempre – è: “Dimmi bene qual è il programma, mi spieghi bene tutto, dove andiamo, da dove partiamo, dove dobbiamo andare, tutto per bene, e poi ci mettiamo a cominciare a fare qualcosa”.  Invece proprio Francesco insiste tantissimo di non cercare il programma, ma di cominciare. È perché non sa dove andare? No, perché sa quanti programmi abbiamo fatto e quanto la gente è andata da un’altra parte, e quanto abbiamo risposto alle domande che nessuno ci faceva, invece di ascoltare le domande che ci sono nel cuore. Questo è il problema. Allora qualche volta, io lo capisco, dicono: “Dobbiamo definire bene prima tutto”. No! Ma una madre prima definisce tutto? Risponde subito se il figlio sta male, poi imparerà. Ci sono delle mamme – a me colpiscono – che sono diventate più brave di primari. Perché? Perché il figlio sta male, e ne sanno più di primari, perché c’è un amore che il primario non ha. Ecco che dobbiamo fare noi. Quando dico noi, dico le nostre comunità, la Chiesa sono le nostre Chiese, tutte importanti. Mons. Gerardo ha detto all’inizio che anche le comunità più piccole sono importanti. Anche le comunità più piccole sono importanti. Tutte sono importanti, sono tutte una luce, tutte e trasmetteranno sempre qualcosa e renderanno migliore questo mondo.

Devo chiedervi una cosa: è un momento importantissimo per la Chiesa, importantissimo, è un cambiamento importante, qualche volta uno lo vede nei frutti ultimi. In una diocesi non c’è più Vescovo e si dice: “Ora che succede?”. Ecco faccio un riferimento casuale. Anche voi avete avuto questo, perché avete unito Sora e Cassino, dopo 1.500 anni. Ma il vero cambiamento è anche quello che stiamo vivendo. Allora la convinzione di Papa Francesco e anche davvero la condizione nostra della Chiesa è che quello che può sembrare una debolezza – la fine di un mondo, una difficoltà insuperabile? – è una grande opportunità e rendiamo queste sfide una grande opportunità per una Chiesa – così finisco con questo –  sia minoranza creativa e una Chiesa di popolo. Le due cose non sono contraddittorie: minoranza, perché creativa? Perché molte volte la minoranza si chiude, si difende, si protegge, il mondo intorno non mi capisce più, non so più chi sono, chiudo bene le porte, cerco di chiarire bene chi sta dentro e chi sta fuori, perché altrimenti non si capisce più niente. No: una minoranza creativa, cioè che non smette di trasmettere, di comunicare, di essere lievito, di essere una luce donata agli altri, che non smette di spezzare i cinque pani e due pesci, e questo lo fa soltanto ascoltando e mettendo in pratica il Vangelo. Non è che lo fai prima, lo devi cominciare a spezzare, per cui poi finisce che va bene per tutti, altrimenti sarai sempre a guardare i cinque pani e i due pesci e dici: “Io non ho niente!”. Finché non li spezzi, finché non li doni, sono sempre gli stessi, manca questo pezzo qui. E dall’altra parte sempre una Chiesa di popolo, di un popolo che è molto più grande di quello che pensiamo noi, che possiamo, dobbiamo raggiungere. In questo senso credo che il cammino sinodale ci darà anche la consapevolezza del tanto che possiamo, che abbiamo, perché più passa il tempo più mi convinco che il male ci nasconde anche la bellezza che siamo, che ci fa cercare delle cose che non esistono, ci fa pensare che non contano niente, quando abbiamo tanta, tanta forza nelle nostre persone, in tante persone, che hanno testimoniato e hanno preso sul serio il Vangelo, quei santi della porta accanto, che possiamo essere ognuno di noi – ognuno di noi ce ne ha tanti in mente – che ci hanno ricordato la bellezza di essere cristiani.

Finisco con questo: il Sinodo generale ha tre parole chiave a cui deve rispondere: comunione partecipazione e missione; sono le tre parole chiave del Sinodo generale, nel quale anche c’è il cammino della nostra Chiesa in Italia. Comunione: per cui il problema della Chiesa non sono i preti, siamo tutti noi. La partecipazione: non ti sottrarre, oppure non metterti al mezzo, perché c’è la comunione, però non ti sottrarre. E poi missione: tutto questo non è per noi, il Signore ci chiama perché ci manda, perché il mondo è un ospedale da campo, perché il mondo è pieno di sfide, e con tanta preoccupazione perché sono così pochi gli operai che si mettono a lavorare nella messe. Per questo comunione, partecipazione e missione, perché la Chiesa – che è quella di sempre, potremmo dire, ma deve essere quella di oggi e quella di domani- dipende da come scegliamo oggi, non c’è dubbio, e quindi deve essere la Chiesa che oggi guarda alle tante domande, per costruire la Chiesa di domani. Ecco ci sono tante sfide, a volte drammatiche, come quelle che abbiamo vissuto nelle pandemie, e che ci aiutano a capire che cosa significa essere cristiani ed essere Chiesa del Signore. Grazie.

Risposta del card. Zuppi ad alcune domande

Riprendo due delle domande, quella sui giovani e questa domanda sul discernimento. Come coinvolgere i giovani? Noi molte volte anche qui un po’ cerchiamo una formula, cioè è il sogno di tutti di tutti i catechisti: trovare il modo per cui i bambini stanno con gli occhi aperti: “Fermi tutti, ancora, non voglio andare a casa, voglio ancora il catechismo. Quand’è che ricominciamo?”. Ecco questo è il sogno erotico del catechista o della catechista. Poi invece c’è un combattimento, anche perché qualche volta i bambini arrivano che sono già stanchi, oppure – non so se lo fate durante i giorni feriali oppure la domenica – quindi la domenica arrivano tutti alla spicciolata… Penso, invece, a tanta creatività che l’urgenza, le condizioni, la necessità, ci hanno posto. Penso che sicuramente sarà il tema della iniziazione cristiana la vera priorità, cioè come comunichiamo la fede, come trasmettiamo la fede…

E non è soltanto un problema che riguarda i bambini, i ragazzi, ma anche agli adulti, ovviamente. Credo che sicuramente sarà una delle domande su cui faremo discernimento nei prossimi due anni, perché avvertiamo tutti una grande difficoltà nella trasmissione della fede, e questo ci deve coinvolgere. Ma – ripeto – dobbiamo trovare le risposte, ma trovando insieme gli strumenti per comunicare la presenza del Signore, la conoscenza del Signore, l’incontro con il Signore a tanti che ne sono lontani, lo cercano in altri modi, che erano coinvolti e si sono allontanati, insomma le persone che noi incontriamo. Questo non si può non fare insieme.  Quando prima si diceva pastori e fedeli chiamati a camminare insieme, sì certo di sì. Ha ragione il Cardinal Farrell quando parla di tanti apostolati che i preti non possono svolgere. Vi ricordate quante volte Papa Francesco ha insistito? il clericalismo produce anche, è frutto anche del pensare del credere che ci debba pensare il prete. Oppure un altro clericalismo, a cui accennavo prima, per cui ci sto io, sempre in una logica di potere non di servizio, di considerazione e non di dono, perché è vero che tanti apostolati i preti non possono svolgerli, sarà sempre di più così – per certi versi per fortuna. Io penso che uno dei temi su cui parleremo, rifletteremo in futuro saranno i ministeri, i ministeri istituiti, quindi non opportunistici, ma che fanno parte della struttura stessa delle nostre comunità – l’accolito, il lettore, e adesso Papa Francesco ha indicato anche il catechista. Questo ci chiede un cambiamento o forse ci permette anche di coinvolgerci assieme, ma lo faremo se guardiamo fuori, non se guardiamo dentro.

Non è un problema di una logica interna ma è: come facciamo con tutti quanti i ragazzi, appunto? Allora cominciamo a trovare, a pensare, a immaginare, a cercare insieme, e non c’è una risposta nascosta da qualche parte, non è che il Vescovo fa fare un po’ di esercizi, poi: “Vabbè’, adesso vi spiego tutto quanto io come si fa”. Per certi versi lo dobbiamo scoprire tutti, tutti, perché sono sfide nuove, perché dobbiamo trovare le parole giuste, i modi e questo sicuramente appunto è camminare insieme.

Ultimissima osservazione: se c’è una cosa che è tanto importante nella nostra Chiesa e nelle nostre comunità è la gratuità, cioè la bellezza della Chiesa in Italia è che è piena anche di tanta gente, di tanti uomini, donne che donano, che lo fanno per amore, perché vogliono aiutare, perché vogliono camminare insieme, perché vogliono che il Vangelo raggiunga il cuore di tanti. La gratuità: lo faccio perché lo voglio fare, perché rendo questa casa più bella.

Davvero credo che le nostre comunità ancora – nonostante tante difficoltà che pure ci sono – sono dei luoghi del gratuito, in una generazione dove tutto costa, dove tutto viene spesso ridotto a prestazione, a interesse. Qual è il mio interesse? che voglio bene alla Chiesa, che voglio bene a nostro Signore, che mi ci metto con tutta me stessa o con tutto me stesso. Questo, guardate, è già una grande premessa, perché ci aiuterà a trovare le risposte necessarie

Sui giovani quindi, certamente non mettiamoci a fare chissà che. Qualche cosa pensiamo che i giovani non capiscano, non sentano, che dobbiamo… dobbiamo aiutarli a vivere dentro la realtà, dar loro fiducia e sapere aiutarli a confrontarsi con le domande vere. Qualche volta pensiamo che dobbiamo sempre fare, preparare delle cose, perché così forse le capiscono: le capiscono benissimo! Poi caso mai dobbiamo aiutarli, insieme a loro – gli scout che camminano e camminano insieme sanno che cosa devono fare – aiutarli a trovare assieme le risposte, ma non a domande finte: le domande vere. Penso per esempio quanto gli scout fanno, discutendo rispetto all’ambiente, rispetto alle situazioni di fragilità; è lì che si coinvolgono poi i giovani, quando vedono qualcosa di vero, qualcosa non di artefatto per loro, o di studiato perché così… Oppure ancora soltanto istruzioni per l’uso: ti spiego bene quello che devi fare, poi sono affari tuoi… no: camminiamo insieme!

L’ultima cosa, il discernimento, è quello che dobbiamo fare l’anno prossimo. Credo che anche voi abbiate fatto questi tavoli sinodali, dove sono venute fuori tante cose – qualche volta anche in maniera in cui dobbiamo mettere ordine – con tante domande. Ecco, dobbiamo fare il discernimento e dire assieme. Effettivamente le catechesi del Papa sul discernimento sono un bellissimo strumento, molto importante, per trovare le risposte, per cercare insieme le risposte, sempre con tanta fiducia che il Signore non ci farà mancare le risposte, se ascoltiamo lui come Maria, se ci mettiamo ai suoi piedi e sapremo stare ai piedi delle domande così profonde, così dolorose per tanti davvero, con tanto coinvolgimento umano sapremo accompagnare ad incontrare la presenza del Signore.

*Testo da registrazione non rivisto dal relatore

 

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