Omelia per la Solennità di Cristo Re dell’universo – 26 novembre 2017

A immagine di Cristo, Re-Pastore 

Omelia per l’immissione canonica dei presbiteri

don Emanuele Kahora, don Giuseppe Nyrung e don Loreto Castaldi*

Solennità di Cristo Re dell’universo, 26 novembre 2017

 

Nella solennità di Cristo Re dell’universo, la Parola di Dio ci parla attraverso la categoria del pastore, sia nella prima lettura sia nel vangelo.  Questi, infatti, saranno gli eventi ultimi della storia: il Figlio dell’uomo siederà sul trono della sua gloria e separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre. Alla luce di questa categoria, ritroviamo una strettissima continuità e reciprocità tra i testi proclamati. In particolare, l’inizio letterario del vangelo ci rimanda ai verbi della prima lettura (Ezechiele 34) mentre l’ultimo pensiero del brano di Ezechiele introduce e prepara all’ascolto della trama della parabola raccontata nel vangelo odierno.

Nella prima lettura è Dio che parla: il profeta dà voce al Re-Pastore di Israele, il quale si presenta con i verbi fondamentali del suo agire a favore del gregge. Non possiamo, in quanto presbiteri, non misurarci con queste azioni peculiari, tratti eleganti della premura del pastore. E’ una chiara e dichiarata sfida da parte del Signore contro i cattivi pastori. A differenza del loro disinteresse, Dio-Pastore cercherà in prima persona le pecore. Come ci ricorda con insistenza la Chiesa di Papa Francesco, il pastore deve per primo prendere l’iniziativa di andare in cerca delle pecore,  per conoscere e capire i molti ritardi che parlano di lentezze, riottosità, lontananza, indifferenza…La ricerca dell’altro si traduce in una forma rispettosa di prossimità pastorale, senza esclusioni, senza pregiudizi. Il Re-Pastore promette di passare in rassegna le pecore: prima si impegna nel radunarle, riunirle, metterle insieme. Si tratta di favorire e di sviluppare gradualmente forme di incontro, ponti di dialogo, di collaborazione, di corresponsabilità, nella consapevolezza che tutti i battezzati sono parte del gregge, e non soltanto coloro che restano nell’ovile. La comunità eucaristica della domenica, infatti, non esprime la completezza e la complessità di tutto il gregge.

Ancora: Dio promette di condurre al pascolo le pecore e di farle riposare tranquille. Portare le pecore al pascolo significa nutrire la vita dei credenti affidati al pastore di ogni comunità parrocchiale. Il Signore consegna alla Chiesa Dio affida la ricchezza del cibo della Parola spezzata ai credenti nella forma della proclamazione, dell’annuncio omiletico, della predicazione catechetica, dell’insegnamento, dell’istruzione, della meditazione, della lectio divina.  Con la Parola di Dio si risponde alla fame di verità, di bellezza, di grazia, che la gente porta con sé. E’ la Parola che è forza per la conversione e per la santificazione della nostra vita.

Dio come Pastore si avvicina con particolare premura alla pecora malata. E’ davvero grande il suo cuore, perché mentre di solito le pecore malate vengono abbattute, Lui le vuole guarire. Verso le pecore malate Dio ci insegna avere nei loro confronti una cura ancora maggiore, Senza dimenticare con troppa faciloneria e incoscienza il fatto che non di rado le ferite di molte pecore sono state provocate sia dagli stessi pastori, da noi preti, sia dalla gente di Chiesa, avvezza a pettegolezzi e pregiudizi dilanianti.

* Testo da registrazione

L’ultima azione annunciata da Dio attraverso il profeta Ezechiele riguarda il “giudizio” sulle pecore. Dopo aver  richiamato i pastori ad un serio ravvedimento, per desistere dal loro pessimo comportamento nei confronti del gregge, ora Dio si rivolge anche direttamente alle pecore, verso le quali annuncia un’azione di giudizio, cioè di discernimento, con il quale valuta la bontà o meno nel comportamento di ogni pecora. Tale conclusione della pagina profetica ci ricollega con lo svolgimento e lo sconvolgimento della parabola evangelica. Gesù preannuncia il giudizio-discernimento finale ad opera del Figlio dell’uomo, che siederà sul trono, al modo di un giudice, per dichiarare il comportamento di ogni pecora rispetto a quello delle capre. La differenza la fa una serie di azioni verso i “poveri”. In entrambi i casi il giudizio deriva da un non sapere assoluto (“Quando mai…”) e appartiene unicamente al re. Qui san Matteo fa un passo avanti rispetto a 6,1-18 passando da un’etica del segreto ad un’etica del non saputo. Né le pecore, né le capre hanno sospettato per un momento il loro differente comportamento verso le molte forme di povertà. Questa logica apre sulla gratuità del dono: sarà solo la parola del Figlio dell’uomo, e non la parola degli uomini né della Chiesa, che dirà il valore di questo agire.

La solidarietà poi del Cristo con i “più piccoli” non è una parola vana, astratta, probabile. E’ una certezza, che si concretizza subito dopo nel racconto della sua passione, dove prigione, sete, nudità, estraneità, sono la sorte del Figlio dell’uomo in cammino verso l’abbandono della morte. A noi, pastori, spetta educare i credenti all’esercizio della carità, quale criterio fondamentale e decisivo di discernimento tra una vita cristiana gradita a Dio e quella di chi da Lui sarà allontanato nel giudizio finale: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli…” (Mt 25,42).  Il criterio decisivo della salvezza sarà il servizio alle povertà quale risposta alle invocazioni dei “più piccoli”, senza sbandieramento di proclami, di annunci, di pubblicità; piuttosto, nella semplicità del silenzio, dell’umiltà, del nascondimento; insomma tutto in modo così connaturale alla vita cristiana, da non perdersi dietro finzioni e ipocrisie di facciata, ma spendendosi con immediatezza senza pensarci due volte, forse senza nemmeno sapere di avere a che fare con la presenza nascosta di Cristo nei “più piccoli”. Non è da ritenere bravo cristiano chi vanta titoli, targhe, e onorificenze: sarà solo il servizio reso ai poveri a fare la differenza di giudizio all’interno dello stesso gregge. I poveri ci condanneranno o ci salveranno. Per questo solo “la carità non avrà mai fine” (1Cor 13,8), perché ciò che avremo fatto nel segno dell’amore merita di essere conservato da Dio per sempre.

                                                                                 + Gerardo Antonazzo

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