Omelia per il 50° di sacerdozio di don Paolo Galante

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Per me il vivere è Cristo

Sora, parrocchia S. Giuseppe artigiano – 24 settembre 2017

Carissimo don Paolo,carissimi ragazzi in attesa di ricevere la pienezza dello Spirito con l’unzione crismale, carissimi amici riuniti per questa suggestiva celebrazione dell’ Eucaristia: siamo un popolo di “consacrati” dallo Spirito di Dio. Nelle acque del battesimo la nostra vita è stata unita per sempre al mistero di Cristo, è “cristiana” perché  inseriti nel mistero della vita del Figlio di Dio. Tutti siamo diventati  discepoli di Cristo e con l’apostolo san Paolo possiamo professare: “Per me il vivere è Cristo”. Pensare e vivere di questa verità ci fa bene, perché è come ravvivare il dinamismo del nostro essere cristiani. In realtà l’espressione paolina  è audace e ci provoca: la mia vita è per Cristo che ha dato la sua vita per me; non posso più vivere come se non mi avesse mai amato; è Cristo crocifisso il modello e il maestro di una vita piena e felice; insomma è come dire: Cristo è tutta la nostra vita. Maturare nella fede cristiana significa prendere coscienza della verità e della bellezza del battesimo, e sviluppare i molti significati del nostro vivere “per Cristo, con Cristo e in Cristo”. Se la nostra vita non pone sostanzialmente al centro Gesù Cristo, tutto di noi diventa terribilmente pagano, come se cristiani non fossimo mai diventati.

Cari cresimandi, lo Spirito Santo che ha consacrato don Paolo come servo di Gesù Cristo per l’esercizio del sacro ministero, è il medesimo Spirito che oggi consacra anche voi come discepoli e testimoni del Risorto, non di un eroe del passato o di un personaggio glorioso per le sue gesta straordinarie. Voi siete come la vigna di cui parla il Vangelo di oggi: di voi si prendono cura genitori, educatori, padrini, parenti (in particolare i nonni!), gli amici (quelli affidabili!) e tutte le persone che vi vogliono bene. Non ultima, anche la Chiesa, qui rappresentata visibilmente da questa assemblea di preghiera. In tanti si prendono cura di voi, come di un grande  campo nel quale è stata piantata la bellissima vigna della vostra vita. Potete dirvi sicuri che il Signore non fa mancare gli agricoltori impegnati nel favorire la maturazione e la fruttuosità della vostra esistenza umana e cristiana.

Caro don Paolo, con il tuo eccomi hai consegnato a Cristo la tua vita per il servizio dei fratelli. Nel giorno della tua consegna al Signore, Lui ti ha affidato la porzione di vigna da coltivare. Ecco oggi di fronte a te la vigna di sempre, cresciuta nel corso di questi cinquant’anni. La vigna prediletta sono questi fratelli e sorelle che oggi gioiscono e pregano con te. Nell’immagine della vigna, lo sai bene, la Bibbia utilizza una delle metafore più belle per descrivere e dimostrare concretamente  la cura, la fatica e la passione di Dio per il popolo d’Israele. Penso in questo momento soprattutto al profeta Isaia, il quale compone un canto di amore per il suo Diletto (Dio):“Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle (Is5,1). Isaia racconta che Dio aveva piantato con amore, con cura, la sua vigna: l’aveva vangata, sgombrata dai sassi, vi aveva costruito in mezzo una torre e un tino, l’aveva protetta da ogni rischio di distruzione.

Anche il salmo 80 recita: “Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli, le hai preparato il terreno, la sua ombra copriva le montagne ei suoi rami più alti cedri. Ha steso i suoi tralci fino al mare, e arrivavano al fiume i suoi germogli” (v. 8-12).  Dio ha coltivato la sua vigna quando ha liberato Israele dall’Egitto e lo ha “piantato” nella terra promessa, la terra di Canaan.

Don Paolo,  oggi fai memoria di ciò che ha sempre ispirato la mente, il cuore, il tuo agire apostolico. Tu lo hai anche condiviso in una “Comunicazione aperta”, con i fedeli della tua comunità solo qualche giorno fa. Nelle tue parole si riconosce ancora la vivacità del cuore con cui ti sei speso nel ministero in mezzo alle baracche, per far ripartire la fiducia e la speranza nella vita di tanta gente semplice e povera. Grazie per il servizio che hai svolto e continui a svolgere: sei sceso sempre in campo senza scendere a comprromessi, anche a costo di qualche incomprensione. Oggi il Signore ti riconsegna ancora la stessa sua vigna, perché tu continui a coltivarla secondo il suo progetto, secondo la sua volontà, con le “istruzioni” del Vangelo, coinvolgendo la responsabilità di laici collaboratori contro ogni forma di clericalismo e di autoreferenzialità. Nella tua comunicazione tra l’altro dichiari: “Sono stato spesso riconosciuto come “Paolo”, il prete delle baracche di Sora…Ancora oggi più che mai, a cinquant’anni di ministero pastorale, religioso e civile, devo raccontarvi l’amore sorprendente di Dio, fatto carne nella nostra storia che per me – grazia!-  ha trovato il suo ‘collante’ dentro il popolo delle mie ‘baracche’. E’ il sogno che sempre più meravigliosamente si attua. Nessuno ne è escluso. Emblematicamente molte strade del quartiere sono state dedicate al valore indimenticabile di poeti, di scrittori, di storici…; analogicamente amo ripetervi, come in altre occasioni,  che le persone, le case, le vicende, anche gli errori, i ritardi, le miserie della nostra comunità risorta dal terremoto del 13 gennaio 1915 (e non solo!)  costituiscono la poesia più bella, la storia più intensa, il capolavoro più accurato in cui l’amicizia di Dio per noi, tutti, ha voluto collocare il suo tabernacolo. E’ un autentico laboratorio di vita anticipatore del futuro felice dell’umanità. E’ la nostra comune vocazione e missione. Quindi non possiamo noi non localizzare questo cinquantesimo negli stessi spazi, con il sigillo profumato della Confermazione”.

Oggi noi, tutti, preghiamo per te e con te vogliamo risolvere l’ultima questione posta dal vangelo: quella della ricompensa agli operai della vigna. Dio misericordioso paga tutti e paga bene, perché il Signore non fa “caporalato”. La logica della sua retribuzione non segue la regola della giustizia umana, la trasgredisce perché la supera: gli ultimi chiamati a lavorare nella vigna vengono pagati quanto i primi, con i quali aveva pacificamente concordato il giusto prezzo di un denaro. Caro don Paolo rimane anche te per la questione della paga. A volte possiamo essere vinti dall’impazienza, e  sfiduciando la magnanimità del Signore ricerchiamo il salario umano delle gratificazioni, delle soddisfazioni, degli appalusi, dei riconoscimenti, dei privilegi, dei calcoli e dei  numeri, delle targhe e dei titoli, degli attestati e dei molti successi. Non è il tuo caso, prete dal cuore aperto e dalle tasche bucate! Nulla di tutto questo nel tuo stile. Hai lavorato sempre come umile operaio nella vigna del Signore, come anche Benedetto XVI disse di sé nel giorno in cui veniva eletto Papa. Il vero servo, umile,  appartiene a quanti possono riconoscersi nelle parole del vangelo: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 7, 10). “Inutili” non si riferisce a chi non serve a nulla, ma a chi compie tutto con l’umiltà di Maria: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). L’umile servo riconosce sempre il primato di Dio, le grandi opere del suo Amore, e sa che il salario è Dio stesso. Il servo umile sa che la via della gioia e della felicità è compiere il grande comandamento dell’Amore: “Nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna” (Colletta) .

                                                                                                    +  Gerardo Antonazzo

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