Convegno Pastorale sul risveglio della Fede: La conversione missionaria e il secondo annuncio

1. Un passaggio chiave della pastorale: dalla conservazione alla missione

– Per comprendere la crisi e le sfide della pastorale  e della catechesi italiana è importante a mio parere avere una chiave di lettura semplice, che permetta di capire il punto in cui ci troviamo e la direzione che siamo chiamati a prendere. Lo faccio prima di tutto con un immagine molto efficace e poi con alcuni spunti di riflessione.

– In un incontro di formazione che ho avuto il 24 giugno scorso con il clero della diocesi di Rovigo, nel Triveneto, don Luigi  Spirandelli, parroco della parrocchia di Ramodipalo di Lendinara mi raccontava, come lui solo sa fare, che proprio quel giorno, 20 anni prima, una terribile tromba d’aria si era abbattuta sulla sua chiesa. I fedeli se ne erano già andati tutti e lui aveva appena chiuso la chiesa. Improvvisamente tutto diventò nero, poi una nuvola di polvere e un grande boato. Quando la polvere si fu diradata don Luigi rimase senza fiato. Non c’era più il campanile della sua chiesa! Dalla ricostruzione che si poté fare, ecco la dinamica: la tromba d’aria lo aveva letteralmente sradicato, girato su se stesso e lasciato cadere rovinosamente sul tetto della chiesa, che rimase totalmente sventrata. Gli chiesi se avevano ricostruito il campanile. Mi disse che avevano ristrutturato la chiesa, riaperta 12 anni dopo, ma il campanile no. Ora la chiesa appare una grande casa in mezzo alle case. «Per scelta?, gli ho chiesto?. «No, per mancanza di fondi», mi ha risposto. Ho iniziato il mio intervento con i parroci della diocesi di Rovigo con quel ricordo. La chiesa ha conosciuto in questi ultimi anni un vero e proprio tornado. Quel campanile, simbolicamente al centro di ogni paese, segnava una coincidenza di fatto tra il civile e il religioso e faceva della chiesa il centro di unità della vita della gente. Quel campanile divelto è una realtà di tutta la chiesa dentro la cultura annuale. Ho terminato il mio incontro con i preti di Rovigo invitando a trasformare una disgrazia in una scelta e a ristrutturare la pastorale non ricostruendo più il campanile, e non per mancanza di risorse economiche e umane, ma per scelta, per quella che possiamo chiamare una nuova figura di comunità ecclesiale tra le case della gente.

Lasciamo il racconto ed entriamo nella riflessione. Il passaggio che la pastorale è chiamata a fare è questo: da una pastorale di conservazione a una pastorale della proposta.

Ascoltiamo le parole di Papa Francesco nella Evangelii Gaudium.

«… è necessario passare « da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria » (EG 15).

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, « ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale ». (EG 27).

Qual è la ragione della scelta di questa prospettiva? Siamo a pochi passi dalla fine del cristianesimo sociologico. Di quel cristianesimo, cioè, nel quale cristiano e cittadino coincidevano e nel quale non si poteva essere altro che cristiani: la fede ereditata, e di conseguenza dovuta, scontata, obbligata. È terminato il tempo del «catecumenato sociologico» (Joseph Colomb). Camminiamo verso un tempo nel quale le persone, immerse in un pluralismo culturale e religioso, sceglieranno se essere cristiani o meno, perché la cultura attuale non trasmette più la fede, ma la libertà religiosa. La risposta inadeguata a questa situazione è quella della nostalgia, che pastoralmente si traduce nel moltiplicare l’impegno pastorale per riportare le cose riguardanti la fede a come erano prima, quando tutti e tutte si riferivano alla parrocchia. Si tratta di una generosità pastorale mal orientata. Se la Chiesa continua a rimanere fissata su ciò che le sta dietro, sarà trasformata ben presto in una statua di sale (Gn 19,26).

La direzione giusta è invece quella di una pastorale della proposta, di una comunità che nel suo insieme, in tutte le sue espressioni e dimensioni, si fa testimone del Vangelo dentro e non contro il proprio contesto culturale.

Noi siamo nati come lievito; nel tempo siamo diventati pasta; diventando pasta (cristianesimo sociologico) abbiamo perduto la nostra forza lievitante. Il Signore sta riconducendo la sua Chiesa a vivere come una minoranza. La tentazione può essere quella di ripiegarci in una “minoranza setta”, cioè “a parte” della storia e della cultura, o, peggio, una minoranza “contro”.  Come essere minoranza lievito e non minoranza setta o minoranza contro? Questa è la posta in gioco. È su questo punto che si gioca il futuro della fede cristiana. L’appello, di cui il papa si fa autorevole eco, è di divenire una minoranza “per”, a favore della pasta. Ricuperiamo allora lo spirito della lettera a Diogneto, che così si esprimeva: «i cristiani sono, nel mondo, ciò che è l’anima nel corpo»[1] (Lettera a Diogneto, 6).

C’è da rammaricarsi di fronte a questo scenario? Per EvangeliiGaudium c’è da gioire, perché quello che ci aspetta è potenzialmente meglio di quello che stiamo perdendo. Usciamo dal cristianesimo dell’abitudine e dell’obbligo, andiamo verso una adesione alla fede segnata da libertà e gratuità.

Occorre però riconoscere, per una corretta lettura pastorale, che non siamo ancora del tutto in una situazione di fine della cristianità. Noi dobbiamo ancora gestire, nel bene e nel male, i riflessi condizionati del cristianesimo sociologico, che in alcuni paesi europei e come strato presente in molte persone porta ancora a riferirsi alla sfera del religioso come elemento di tradizione. Considerare questo come negativo sarebbe un errore di valutazione. È piuttosto un dato ambivalente. Questa ambivalenza tra il permanere di alcune abitudini religiose e la secolarizzazione delle mentalità è, al contempo, risorsa e fatica nella pastorale ecclesiale. Di fronte a tale situazione dobbiamo, da una parte, valorizzare quanto ancora permane di tradizione (ad esempio, non disprezzando la domanda di riti, che «permangono credibili e incidono più a lungo di tutti i nostri discorsi teologici»[2]); d’altra parte eviteremo di lasciarci ingannare dall’effetto polverone (del campanile caduto) o dall’“effetto miraggio”.

Ciò che resta di « cristianità » nelle abitudini sociali deve essere valorizzato per il passaggio da una fede frutto di convenzione ad una fede di convinzione. Fin d’ora lavoriamo per un cristianesimo che verrà. Questo atteggiamento esige coraggio e saggezza pastorale.

2. I tre cambiamenti che abbiamo intuito, i tre cantieri pastorali da allestire

Passando dall’analisi della situazione al cammino da fare, possiamo direcon una certa sicurezza che nella Chiesa italiana alcune direzioni sono state intuite e già parzialmente avviate. Le riassumo in tre, raccogliendole attorno a tre cerchi concentri: la parrocchia, all’interno di essa il processo di iniziazione cristiana, all’interno di questo la catechesi. Per passare gradualmente a una logica missionaria occorra agire con saggezza ma anche con coraggio pastorale su questi tre livelli intimamente connessi.

a) Da una parrocchia della cura delle anime a delle comunità missionarie. Le parole qui sono decisive: da una parrocchia (che dice struttura, organizzazione, servizi…) a delle comunità (che dice persone, gruppi, relazioni, spazi di comunicazione) missionarie (che stanno serenamente in una situazione di minoranza e testimoniano la fede non per dovere, ma per gratitudine).

Il documento ecclesiale guida, il migliore prodotto nell’ultimo decennio dalla CEI, il più lucido e concreto, è Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004.

« Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta più. È necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società» (n. 1).

b) Da un dispositivo di iniziazione ai sacramenti centrato sui bambini a una iniziazione alla vita cristiana attraverso i sacramenti, che pone al centro gli adulti[3].

Si tratta del ripensamento del modello di iniziazione cristiana in prospettiva catecumenale.

Così la definisce il Direttorio Generale per la catechesi: «La concezione del Catecumenato battesimale, come processo formativo e vera scuola di fede, offre alla catechesi post-battesimale una dinamica e alcune note qualificanti: l’intensità e l’integrità della formazione; il suo carattere graduale, con tappe definite; il suo legame con riti, simboli e segni, specialmente biblici e liturgici; il suo costante riferimento alla comunità cristiana» (n. 91).

Un esempio risulta molto chiaro per capire il cambiamento. Se un genitore invia il figlio alla scuola di calcio, nessun allenatore si sogna di chiudere i ragazzi nello spogliatoio, di dar loro in mano il manuale del calciatore e di spiegare loro per un’ora gli schemi e le regole del calcio. Li mette in campo con un pallone tra i piedi e mentre imparano a giocare dà loro le indicazioni necessarie.

c) Da una catechesi di insegnamento o di approfondimento al primo annuncio e soprattutto al secondo annuncio, vale a dire a una proposta che accompagna l’intiumfidei, il comininciamento o il ricominciamento della fede (secondo annuncio). In questi anni noi abbiamo già operato una conversione della catechesi, e che ora dobbiamo affrontarne una seconda. Noi siamo passati da una catechesi “della dottrina” a una “catechesi per la vita cristiana”, come dicono bene i sottotitoli dei Catechismi CEI. Questi sottotitoli intendevano segnare il primo cambiamento. E questo cambiamento (la catechesi per la vita cristiana) ha segnato i 40 anni dopo i concilio. L’abbiamo chiamata catechesi antropologica o esperienziale (secondo la denominazione dell’AC). “Per la vita cristiana” significa per aiutare i cristiani tradizionali (per eredità) a scoprire che tutti gli elementi della loro fede (riti, norme, dottrine) raggiungono la loro vita e rispondono alla loro ricerca (la fede come compimento dell’umano). Si tratta ora di proporre la fede a persone che non l’hanno avuta in eredità, che non l’hanno mai realmente assunta e non la considerano come necessaria per vivere una vita umana e sensata. Afforntiamo qui la questione del primo e del secondo annuncio.

3. Primo e secondo annuncio

Siamo chiamati dare a tutta la catechesi una prospettiva di primo o secondo annuncio. I Vescovi italiani, in un documento importante sul rinnovamento missionario delle parrocchie (il più significativo dell’Episcopato italiano in questi ultimi anni) utilizzano questa illuminante espressione: «Di primo annuncio vanno innervate tutte le azioni pastorali» (VMP, n. 6)[4].

Questa prospettiva catechistica (“di primo annuncio vanno innervate tutte le attività pastorali”) permette anche di capire che il compito missionario non consiste nell’azzerare la pastorale in atto per costruire sulle sue macerie qualcosa di completamente diverso, ma di intervenire sulla pastorale ordinaria e sulle iniziative in atto dando loro una nuova prospettiva. Non si tratta di azzerare, ma di cambiare obiettivo. Questo obiettivo non è altro che il passaggio dalla conservazione alla proposta.

3.1 Il primo annuncio

Veniamo ora alla questione del primo annuncio. Cosa intendiamo per una catechesi di primo annuncio? Papa Francesco, con un linguaggio semplicissimo, si esprime così:

«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o “kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale… Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti….

Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi» (Evangeliigaudium, 164-165).

 

Questi due numeri dell’EvangeliiGaudium sono in grado di interpellare profondamente la catechesi in atto nelle nostre comunità. Vorrei qui riprendere una espressione di Giovanni Paolo II, che paradossalmente in occasione di un Convegno sul Catechismo della Chiesa Cattolica diceva che nel contesto culturale attuale la catechesi era chiamata a trasmettere “non omnia, sedtotum”, non tutte le conoscenze relative alla fede, ma il cuore del messaggio evangelico, il kerygma[5]. Il primo annuncio mira ad una totalità intensiva e non estensiva. Annuncia la bella notizia della pasqua del Signore Gesù dentro ogni esistenza umana. Di conseguenza vengono riviste tutte le priorità della catechesi e gli atteggiamenti che la animano: l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta; l’ascolto e la prossimità precedono la parola e la proposta. Questo è il primo annuncio e questo è ciò che le donne e gli uomini di oggi sono disponibili ad ascoltare. Il primo annuncio è il vangelo oggi culturalmente udibile, quel vangelo che congeda il cristianesimo ridotto a morale e inaugura un cristianesimo della grazia e della libertà. Non c’è nessuno chiuso a questo annuncio.

3.2 Il secondo annuncio

Per la natura stessa della fede e per il fatto che siamo ancora a metà strada tra un cristianesimo di tradizione e un cristianesimo di scelta, accanto al compito del primo annuncio si colloca il compito del secondo annuncio. L’espressione “secondo annuncio” è stata introdotta da Giovanni Paolo II nel 1979: «È iniziata – diceva il Papa – una nuova evangelizzazione, quasi si trattasse di un secondo annuncio, anche se in realtà è sempre lo stesso»[6]. Cosa intendiamo per secondo annuncio? Riprendendo l’espressione di EvangeliiGaudium, il secondo annuncio è il “farsi carne” del primo annuncio nei passaggi di vita fondamentali delle persone, degli adulti in particolare. Lo possiamo allora chiamare il secondo “primo annuncio”. La maggioranza dei cattolici ha ricevuto un “primo annuncio”, ha avuto un contatto con la fede cristiana ricevendola in qualche modo come eredità. Il “secondo annuncio” è il risuonare di una parola del primo come parola di benedizione dentro le traversate della vita umana. È il diventare “vero”, il prendere forma e carne del primo annuncio negli snodi fondamentali della vita: è “secondo” perché appare di nuovo come una grazia che si offre, e quindi di nuovo come appello alla libertà perché si disponga, e questo possibile ridisporsi è non raramente un primo disporsi veramente: il passare cioè da una fede per sentito dire a una fede per affidamento personale. Ciò che è annunciato come promessa, si attua come proposta di vita buona dentro le differenti traversate della vita umana. È analogo a quanto accade a Israele: il suo primo esodo diventa secondo primo esodo in tutte le traversate decisive della sua storia, e quindi un ritorno genetico sulle rive del Mar Rosso. Questo vale anche, ad esempio, per un “sì” pronunciato nel matrimonio o nella scelta di una vita consacrata a Dio. C’è sempre un primo sì fondativo, ma spesso quello decisivo è il secondo. Per questo lo possiamo anche chiamare il secondo primo annuncio. Il secondo primo annuncio è la sfida più importante della catechesi rivolta a persone già sociologicamente cristiane. È anche più complicato che un primo annuncio in senso stretto, perché incontra un terreno ingombrato.

3.3Il tempo opportuno del secondo annuncio

Qual è il tempo opportuno del secondo annuncio? Il tempo opportuno sono normalmente le “crepe” che si aprono dentro le esperienze umane che come adulti e adulte viviamo nell’arco della nostra vita. Non è nei periodi di stabilità (culturale, affettiva, economica, fisica…) che il secondo annuncio può farsi sentire in noi, ma quando gli equilibri raggiunti vengono sconvolti. In questo senso l’attuale contesto culturale è un tempo particolarmente favorevole al secondo annuncio. A queste rotture noi diamo il nome di “crisi”, intese come l’intervenire di una discontinuità nella propria vita, una discontinuità per eccesso o per difetto. Per eccesso: l’apparire di un di più gratis che sorprende (come un amore che si affaccia improvviso, un figlio che nasce, una causa che appassiona, una cosa bella che sorprende). Per difetto: l’affacciarsi di una minaccia di morte (una perdita, una situazione di solitudine, una ferita, un fallimento, una malattia, un lutto). Le sorprese sono delle possibili aperture, le ferite possono diventare feritoie. Le “crisi” intese come interruzione dell’ordinario sono possibili “soglie di accesso alla fede”[7].  Dentro queste esperienze ci viene incontro il mistero umano nelle sue due facce: quello della vita e quello della morte. In ognuno di questi passaggi fondamentali è in gioco un’esperienza pasquale: il desiderio di vita e la minaccia della morte: vale per un innamoramento, la nascita di un figlio, una crisi affettiva, una malattia, ecc. Perché da soglie queste esperienze possano diventare acconsentimento e professione di fede è necessario che ci sia una “rivelazione” e uno “svelamento”, una testimonianza cioè di qualcuno che aiuta a far cogliere una “Presenza a favore” in tutto quanto ci succede. In modo che le persone possano dire, come Giacobbe, «Il Signore era qui e io non lo sapevo!» (Gen 28,16).

Perché tutto questo possa accadere ci vuole una condizione. Quella che Paolo con particolare lucidità ed efficacia continua a ripeterci: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rom 10,13-14). Su questa parola di Paolo si fonda l’esigenza e la forza propulsiva del secondo primo annuncio.

fratel Enzo Biemmi


[1]Lettera a Diogneto, 6.

[2] S. Tremblay, Le dialoguepastoral, Bruxelles, Lumen Vitae – Montréal,Novalis 2005, p. 40.

[3] Per una visione sintetica della problematica attuale del rinnovamento dell’iniziazione cristiana si veda: Catechesi e iniziazione cristiana in Italia. Una sfidacomplessa, «RivistadelClero italiano» anno XCVIII (1/2012), 49-66.

[5]Le Catéchisme de Église catholique, “Catéchisme de Vatican II”,Discours de Jean-Paul II au congrès organisé par deux dicastères romains, CITE DU VATICAN, Vendredi 11 octobre 2002.

[6] Giovanni Paolo II, NowaHuta, 9 giugno 1979, Omelia nella santa messa del santuario della Santa Croce.

[7]VESCOVI DELLE DIOCESI LOMBARDE, La sfida della fede: il primo annuncio, EDB 2009, 11-26.

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