“Un libro nel cuore” e “Il vento soffiava” di Vittorio Bonaventura

Presentati a Cassino nella sala S. Antonio

Presentati nella Sala parrocchiale S. Antonio in Corso della Repubblica a Cassino due libri dell’autore Vittorio Bonaventura: “Un libro nel cuore” e “Il vento soffiava”. Davanti ad un pubblico numeroso e attento è stato il parroco Don Benedetto Minchella, nella duplice veste di padrone di casa e di cognato dell’autore, a dare il via alla presentazione, introducendo i presenti alla lettura dei due libri “in parte simili e in parte diversi”.

Un libro nel cuore, ha esordito, è un racconto autobiografico, quel “racconto retrospettivo in prosa che un individuo fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, ripercorrendo la storia della propria personalità”, come dice il critico Philippe Lejeune. In esso l’autore rievoca le fasi più importanti della sua vita e proprio attraverso i ricordi “prende coscienza di sé”, conosce e manifesta “la verità più profonda del proprio io”. Don Benedetto, osservando il predominio delle riflessioni personali, la fusione di coscienza e inconscio, la tecnica narrativa del monologo interiore e del “flusso di coscienza”, l’eliminazione delle barriere tra percezione reale e rielaborazione mentale, arriva addirittura a richiamare la prima comparsa di tali tecniche narrative con James Joice e ad accostare alcuni passaggi del testo, fatto di memorie, al celebre romanzo di Italo Svevo “La coscienza di Zeno”.

L’altro testo, Il vento soffiava, è ambientato nel drammatico quadro della seconda guerra mondiale, nel periodo delle “marocchinate”, le terribili violenze sessuali e fisiche “ai danni di migliaia di individui di ambo i sessi e di tutte le età effettuati dai goumier francesi”, quando, appena sfondata la Linea Gustav da parte degli alleati, le truppe marocchine del Corpo di spedizione francese del generale Juin, ebbero praticamente “via libera” dai comandanti di poter “razziare, rastrellare e infierire sulla popolazione” per 50 ore. In questo modo, ha avvertito Don Minchella, il romanzo “si inserisce nel solco di Alberto Moravia, che scrisse un libro simile affinché tali orrori non venissero dimenticati”, La Ciociara, che divenne anche un famoso film di Vittorio de Sica. Proprio per questo, ha concluso, “Il vento soffiava” “giunge provvidenziale perché la memoria non venga meno, soprattutto in questi ultimi tempi dominati dalla paura delle violenze e delle stragi in un mondo sempre più globalizzato”, ed ha ringraziato l’autore “che con la sua penna ancora dona voce a quanti non vogliono e non possono dimenticare”.

A questo punto la parola è andata a Vittorio Bonaventura che ha spiegato e raccontato le spinte motivazionali che l’hanno indotto a scrivere due libri, che lascia come testamento morale e spirituale ai suoi figli ora che, 50enne, comincia a temere che “alcuni fotogrammi”, che certe cose vadano dimenticate e invece vanno conservate e tramandate. Lo ha fatto con schiettezza e trasparenza, raccontando le difficoltà incontrate, ad esempio, nello scrivere “Il vento soffiava” per entrare nell’anima e nella psiche dei protagonisti, Renato e soprattutto Lucia, per quanto fossero personaggi di fantasia. La sua scrittura, iniziata nei primi giorni di ottobre 2014 nella sua stanza con una finestra “stupenda cornice per il sorgere del sole sul Monte Sammucro”, procedeva a piccole dosi, con molte pause.

I due protagonisti per circa cento pagine appaiono distaccati: Renato nell’oggi, Lucia nel 1944. Renato vive il dramma odierno della separazione, si crea un eremo per stare solo con se stesso, un cane per compagnia. Ma dovrà fare i conti con qualcuno che entrerà nella sua vita, e sarà una vecchia bicicletta, appartenuta a suo zio Faustino e da lui usata durante la guerra per portare un pezzo di pane alla sua famiglia, che, ritrovata in cantina e presa in consegna come una eredità morale, lo farà pedalare – anche nella vita – e gli farà sentire il vento “che è democratico ed equo, non fa discriminazioni, tocca tutto e tutti”.

Ben più difficile per l’autore è stato cercare di rendere con efficacia il personaggio di Lucia, vittima di violenza, una delle tante vittime di quella pagina nera di storia su cui c’è ancora “un assordante silenzio”. Lucia non sentendosi più padrona del suo corpo, fugge e “percorre tanta strada e tante pagine del romanzo”.

Man mano che Bonaventura spiegava il formarsi del suo romanzo, a intervalli si aggiungeva una voce fuoricampo (Francesco Paolo Vennitti) che leggeva brevi significativi passi del libro.

“Ho pensato ai minatori, ha detto l’autore, perché gli scrittori sono minatori di se stessi: per me è stata una sfida, non so se l’ho vinta”. Ha parlato anche dell’altro volume, Un libro nel cuore, un percorso intimistico, semplice, scorrevole, piacevole. Fatto di ricordi: il “paesello”, S. Vittore del Lazio, con le sue feste, tradizioni, soprannomi, personaggi, il prete, la maestra; gli amici, i passatempi, il calcio, la prima tv, la naia, la musica… “le cose semplici che fanno bene allo spirito”. Ricordi che fluiscono nella memoria, a cui è difficile dare un ordine cronologico e che fanno pensare che “è un mistero come siamo riusciti a distruggere la felicità semplice”.

“Ho avuto tanto dalla vita, forse questo libro può essere una piccola compensazione. A voi la lettura e il giudizio”. Ha concluso così l’autore, ricevendo dall’uditorio applausi e forte consenso e, dopo, commenti di consonanza spirituale.

Adriana Letta

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