Un fiore del Carmelo: Suor Colomba Boimond (1880-1956)

Un fiore del Carmelo.

Suor Colomba Boimond (1880-1956)

Lucio Meglio

 

È stato scritto: “è vero che il Cristianesimo si fonda solo su Gesù e sulla testimonianza degli apostoli. Però, ha indispensabile bisogno dei suoi martiri e dei suoi poveri, dei suoi asceti e dei suoi eroi”, e possiamo aggiungere: e di suor Colomba Boimond, straordinaria figura di una donna forte ma allo stesso tempo dolce, la cui vita, spesa nella semplicità della contemplazione,

Ogni storia umana conosce momenti in cui l’esistenza si fa particolarmente densa e chiara. In essi viene fuori l’intuizione nascosta di un passato da cui prende forma lo sviluppo successivo. Il momento più significativo per iniziare a raccontare la vita di suor Colomba Boimond è la nascita della sua vocazione, frutto di un discernimento spirituale durato vari anni e segnato da varie prove come la forte resistenza del padre alla sua vocazione.

Ad Elisa (questo il suo nome di battesimo) non mancava nulla. Era nata a Sora il 15 maggio del 1880 da una ricca famiglia originaria della Francia: i Boimond. Il loro arrivo sulle sponde del fiume Liri avvenne all’inizio dell’Ottocento, quando il francese Carlo Lefebvre, visitando le possenti cascate del fiume Liri, ne intuì il potenziale industriale e convinse alcuni suoi amici a costruire una grande cartiera. Tra di essi vi fu un certo Francesco Boimond, proveniente dalla Savoia, che giunse in Italia assieme alla moglie Elisa Courrier ed il benestante fratello di quest’ultima Dionigi Courrier. Gli inizi per questa famiglia non furono facili. Acquistarono delle terre ed aprirono una piccola azienda per la conciatura delle pelli. Dopo anni di intenso lavoro arrivarono i frutti e così costruirono a Sora una ricca dimora con giardino vicina al fiume Liri. Qui nel 1844 nacque il primo Boimond italiano, Emilio, che divenne il primo industriale della famiglia acquistando una modesta fabbrica per la lavorazione del pioppo, che nel giro di pochi anni divenne una grande cartiera. Il giovane Emilio sposò una ragazza del luogo Colomba Roccatani dal cui matrimonio nacquero tre figli: Edoardo, che fece appena in tempo ad esser battezzato prima di morire, Emilio, ed infine la nostra Elisa.

Come detto l’ultimogenita di casa Boimond nacque il 15 maggio del 1880. Fu battezzata la vigilia di Pentecoste, il 17 maggio, nell’oratorio privato che si trovava al piano inferiore della bella villa, sotto il quadro della Madonna di Pompei. Gli anni dell’infanzia passarono sereni. All’età di otto anni il giorno della festa del Sacro Cuore di Gesù, l’8 giugno del 1888, ricevette la prima comunione. Fin da piccola, Elisa, iniziò a dare segni di una pietà religiosa non comune, rivelando un’intensa devozione mariana che si esplicava con la frequente recita del rosario. A dodici anni i genitori decisero che era arrivato il momento di pensare all’istruzione della figlia, così il 30 ottobre del 1892 la carrozza di don Emilio si fermò dinanzi al portone del collegio del Sacro Cuore di Arpino, dove Elisa trascorse tre anni di studio e di formazione. Qui emersero da un lato le sue doti artistiche (ricamo e musica), dall’altro si intensificò il suo spirito di sacrificio con l’amore per la mortificazione ed il controllo dei propri sentimenti. A quindici anni, il 22 agosto del 1895, il ritorno a casa. Che giorno di gioia fu per la famiglia Boimond, che da poco aveva anche riabbracciato il fratello Emilio, di ritorno dal collegio romano.

Le giornate passavano serene. Elisa, con la mamma, ogni otto giorni andava a confessarsi e comunicarsi dal suo assistente spirituale, il passionista p. Raimondo dell’Addolorata. In casa aiutava a cucinare e suonava continuamente vari strumenti musicali per la gioia del padre. L’estate del 1897 l’improvvisa tragedia. In città, mancando l’acquedotto, ed a causa di molte bestie che liberamente circolavano per le strade, si inquinò l’acqua di un pozzo causando il diffondersi di un’epidemia di peste che in poche settimane causò centinaia di vittime. Anche Elisa fu contagiata e fu una delle poche che riuscì a salvarsi, ma la pestilenza colpì il fisico già provato della madre Colomba, che nel giro di un anno, il 12 giugno del 1898, morì. La malattia fu dolorosissima. Nella chiesa di Santa Restituta, di cui donna Colomba era la principale benefattrice, fu esposta l’immagine della Santa, e le sue reliquie furono portate al capezzale della malata. Ma tutto fu vano. Per Elisa fu un duro colpo. Così scriverà nel suo diario: venne la raffica, arrivò la bufera e gettò a terra la colonna fondamentale. L’edificio crollò e tutto fu sgretolato. Suore della carità, suore stimmatine, padri passionisti, e lo stesso vescovo durante le prime settimane dalla disgrazia fecero continuamente visita alla famiglia per portare sollievo e conforto. A poco a poco la vita tornò a riprendere le sue normali routine, ma con gli anni che passavano don Emilio cominciò a preoccuparsi per il futuro dei suoi figli. Bisognava trovare marito per Elisa, che oramai giunta ai diciotto anni d’età, veniva considerata come una delle più belle ragazze di Sora. L’occasione giunse a Gaeta; qui ad Elisa, ospite con il padre dell’arcivescovo Francesco Niola, fu prospettata l’idea di un fidanzamento con il conte Adriano Aloisi Masella, nipote del cardinale pontecorvese Gaetano Aloisi Masella. Elisa fu presa da un senso di soffocamento. Si recò in pellegrinaggio al Santuario della Santissima Trinità, sulla montagna spaccata, per implorare un segno di conforto, che però non arrivò e così nel Natale del 1898, a Roma, vi fu l’incontro ufficiale tra i due promessi. Il cuore di una creatura non era per me e l’amore umano non era sì sublime e sì puro come io lo desideravo, così scriverà molti anni avanti Elisa ricordando gli anni difficili del tormentato fidanzamento.

 Nel settembre del 1899 la giovane, salendo ad Arpino nel collegio del Sacro Cuore per gli annuali esercizi spirituali, aiutata dal padre gesuita Sergio Di Gioia, avvertì chiaro il suo futuro. Tornata a casa prese carta e penna e scrisse una lettera di addio ad Adriano. Don Emilio, appresa la notizia, divenne furibondo ed iniziò a smuovere mari e monti per far tornare sui suoi passi la figlia, che fu addirittura convocata dal vescovo che la esortò a ritornare sui suoi passi. Ma la giovane fu irremovibile: amo Gesù solo e sarò sua ad ogni costo. Rotto il fidanzamento Elisa iniziò una nuova vita scandita da un intenso fervore religioso. Ogni mattina si recava a messa in Santa Restituta; tornata a casa recita della Via Crucis; preghiere con le mani sotto le ginocchia in segno di penitenza; nessun uso di specchi o di oggetti di bellezza personale e nuovo regime di dieta alimentare. Nella scelta di questo modello di vita fu indirizzata dalla lettura della vita di Santa Teresa fondatrice delle carmelitane scalze, ordine al quale Elisa iniziò a sentirsi legata. Il padre nel frattempo non demorse arrivando a minacciare di cacciarla di casa se non avesse obbedito alla sua volontà. Ma ogni minaccia fu vana. Gli anni intanto passavano ed Elisa giunta alla soglia dei ventitre anni doveva prendere una decisione. Così il 29 ottobre del 1903, salendo sul Santuario della Madonna delle Grazie per ascoltare la messa, si congedò dalla sua città in cui non vi ritornerà più e partì alla volta di Bari, dove da poco era stato aperto il convento carmelitano di San Giuseppe, di cui il p. Di Gioia era assistente spirituale. Fu lui a suggerire il luogo ad Elisa.

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A Sora la notizia della fuga fece una grande impressione. Il padre Emilio era fuori di sé, la sua amata figlia lo aveva tradito. Ci volle un anno affinché la ferita si rimarginasse. Nel frattempo Elisa iniziò la vita che aveva sempre bramato. Il 7 maggio del 1904, adornata da uno splendido abito da sposa bianco, la nostra giovane compì il rito della vestizione religiosa offrendo la sua vita al Signore e cambiando il suo nome di battesimo con quello di suor Colomba del Ss.mo Sacramento, in memoria della sua amata madre. Sono povera e devo lavorare, con questo spirito la novella novizia iniziò a compiere i lavori più umili all’interno del convento, puliva i cornicioni della chiesa, trasportava i pesanti recipienti d’acqua per pulire i pavimenti, si prodigava giorno e notte con squisita carità nell’assistenza alle consorelle malate. La sua perizia nella musica e nel ricamo iniziarono a dimostrarsi utilissime per l’intera comunità. Esercitava la carità e la letizia nei confronti di tutte le persone che incontrava lungo il percorso della sua vita. Nel gennaio del 1905 le fu affidato l’incarico di sagrestana che la riempì di gioia perché le fornì l’occasione di stare più vicino a Gesù Eucaristico. Se hai vinto o mio Gesù, hai vinto sull’anima mia, essa è tutta tua e da oggi innanzi Tu abiterai in essa non solo da Sposo, ma da dominatore e da Re, così scrisse suor Colomba il mattino del 14 settembre del 1905 prima di pronunciare i voti solenni di castità, povertà ed obbedienza. Il compito della carmelitana è di pregare, soffrire ed impegnarsi in ogni istante della vita a vincere i propri difetti ed acquistare le virtù più alte. Suor Colomba visse intimamente questa missione e nel momento in cui stava meditando sul miglior modo per contribuire in concreto alla salvezza di molti fratelli, nel settembre del 1907, ad appena quattro anni dal suo ingresso nel Carmelo, fu nominata direttrice dell’educandato annesso al convento. Ricoprì questo incarico per ben ventidue anni, svolgendo il ruolo di educatrice con appassionato amore. Educava alla vita, al vasto e pericoloso cammino nel mondo indicando chiaramente i pericoli ai quali si era esposti, in modo da formare delle figure di donne forti e soavi. Le centinaia di ragazze che furono educate da suor Colomba non dimenticarono mai la sua figura di madre buona, così il ricordo di una sua allieva: i ricordi più belli della mia infanzia sono legati al mio caro collegio ed hanno come fare luminoso suor Colomba. Nel periodo della grande guerra la direttrice dell’educandato aprì le porte del collegio a tutte le figlie dei richiamati al fronte che erano rimaste sole in famiglia. Dalla grata del parlatorio ogni giorno erano decine le persone che accorrevano per chiedere parole di conforto ed aiuto a suor Colomba che non rimandava mai nessuno senza un aiuto spirituale o materiale.

Nel mese di giugno del 1927 l’inizio del calvario. A seguito di forti dolori sul lato della spalla a suor Colomba fu diagnosticato un carcinoma alla mammella che bisognava asportare con urgenza. Rifiutato il ricovero in una famosa clinica romana proposto dal fratello, la suora fu operata nell’infermeria del convento attrezzata a sala operatoria. I mesi della convalescenza non furono dei più semplici. Suor Colomba cominciò ad accusare dei spasimi acuti ai denti e delle eruzioni gengivali che le rendevano impossibile mangiare qualsiasi alimento solido. Il carcinoma si era esteso alla bocca. Il 2 marzo del 1929 fu tentato un estremo intervento chirurgico. Senza alcuna anestesia, date le condizioni precarie della malata, furono estratti sei denti, incise le gengive e raschiato in profondità l’osso mascellare. Suor Colomba non dette alcun lamento stringendo forte il Crocifisso tra le mani. Terminato l’intervento si decise di sottoporre la malata ad una serie di causticazioni elettriche nel disperato tentativo di contrastare il male. Tre volte a settimana si vedeva salire l’ambulatorio del professore Gatti una povera monaca con il viso terreo, curva, traballante, sorretta da due persone mentre saliva le scale che la conducevano nella stanza dove da lì a poco si espandeva l’odore della carne bruciata dal termocauterio. Suor Colomba stupì tutti per la serenità e l’immobilità del silenzio con il quale sopportava il dolore. Ritornava in convento, stordita dal dolore, ma appena si riprendeva sorrideva dolcemente esclamando alle sue consorelle che ho mai fatto o Gesù per meritarmi tanta grazia? accettando con rassegnazione la fine, a detta di tutti i medici, oramai vicina. All’improvviso, il 2 giugno del 1929, quando in San Pietro si svolgeva la cerimonia di beatificazione di don Giovanni Bosco alle cui preghiere le monache affidarono suor Colomba, la nostra religiosa iniziò ad avvertire un netto miglioramento nelle sue condizioni di salute. Il tumore alla bocca scomparve completamente e senza spiegazione scientifica tra l’incredulità di tutti i medici.

Nel settembre del 1929, a seguito della sua ennesima richiesta, lasciò dopo ventidue anni la guida dell’educandato tornando a vivere nella sua primitiva cella. Non se ne rendeva conto ma in questi anni di intenso lavoro la povera monaca tormentata dai dolori aveva tracciato un metodo educativo che fece scuola in molti convitti nazionali. Tornata in convento riprese la via del parlatorio. Molte anime si affidarono a lei ed alle sue eccezionali doti di intuizione e comprensione che si esprimevano nei suoi occhi. Suor Colomba aveva l’eloquenza dello sguardo. Riusciva, anche senza parlare, ad esprimere al suo interlocutore amore e tenerezza; comprensione o rimprovero. Dopo la sua morte un sacerdote così la descrisse ai suoi parrocchiani: visitare questa suora significava trovarsi di fronte ad uno spirito ripieno di Dio, che poneva degli interrogativi a guisa di scandaglio lanciato nella coscienza. Nel frattempo a Sora si spegnevano i legami terreni con la sua famiglia. Il padre Emilio era morto il 1 febbraio del 1926 a 82 anni; nel dicembre del 1934, ad appena 57 anni, morì drammaticamente il fratello colpito da apoplessia a Napoli; nel settembre del 1935 cedette ad male incurabile la cognata Caterina Ferrante, di cui Sora custodisce una devota cappella da lei fatta costruire sul colle della Madonna delle Grazie in onore di San Gaetano; ed infine scomparvero l’uno nel 1943 e l’altro nel 1947 i nipoti Enrico e Mario, figli di Emilio.

Suor Colomba iniziò di nuovo a salire il suo calvario personale con il sopravvento di un nuovo tumore questa volta all’apparato digerente. La malattia minò il suo fisico già provato. Anche in questo caso i medici non diedero speranze, ma la nostra religiosa definita oramai un “miracolo vivente” visse in queste condizioni per altri venti anni.

Il 14 settembre del 1955 l’oramai anziana suor Colomba celebrò il suo 50° anniversario della professione religiosa. Accorsero da lei centinaia di persone per la festa che si celebrò in convento alla presenza dell’Arcivescovo di Bari. Tutto era compiuto. Con volto sereno al termine della giornata suor Colomba consegnò alla sorella che le faceva da infermiera tutti i suoi scritti che non le fu mai permesso di distruggere come avrebbe voluto. Le nozze d’oro le avevano permesso di salutare tutti, ora era libera di andare. Il 12 marzo del 1956 nei corridoi del convento carmelitano di San Giuseppe da una cella dove si erano radunate tutte le monache si levò un grido: Gesù ti amo, ti amo, ti amo!; erano le ultime parole terrene di suor Colomba Boimond, fiore del Carmelo, che morì in concetto di santità, amata e rimpianta da molti.

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A Sora la grande villa vicina al fiume non c’è più, così come la grande cartiera di don Emilio. Nulla oggi ricorda la famiglia Boimond, se non la piccola cappella di San Gaetano. Di Suor Colomba nessuno ne ha mai sentito parlare. Quella splendida ragazza che tanto affascinava i vicoli dell’antica città di Sora e che, con le sue opere, ha irradiato la vita di centinaia di persone nella lontana Puglia è una perfetta sconosciuta. Alla vigilia del sessantesimo anniversario dalla sua morte l’auspicio è che Sora ed i suoi abitanti riscoprano la figura di una grande donna, educatrice di anime e dispensatrice di carità.

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