Quando la sofferenza bussa alla porta della famiglia

Nell’Anno pastorale in cui si riflette sulla gioia dell’amore e della famiglia, pubblichiamo un interessante intervento centrato sulle famiglie (e sono tante!) che vivono situazioni problematiche dovute a malattia, vecchiaia, disabilità. Per meglio capire e approfondire, per orientare la Pastorale, per condividere e così “scoprire il senso più genuino della vita”.

La famiglia del malato

In continuità e a completamento delle riflessioni sulla famiglia, che nei vari Convegni Diocesani vengono proposte, vorrei aggiungerne altre sulla famiglia che deve accogliere anziani, malati cronici, terminali e in condizioni di disabilità.

Il tema della famiglia nell’esperienza del dolore è molto importante e interessante per la Pastorale della Salute, perché la famiglia è oggetto e soggetto della pastorale nella stagione della malattia e della sofferenza.

Già nel lontano 1984 Giovanni Paolo II nella lettera apostolica “Salvifici doloris”, sul senso cristiano della sofferenza umana, affermava che nel tempo della sofferenza la presenza e gli interventi della famiglia sono determinanti, offrendo “sia atti di amore del prossimo resi alle persone appartenenti alla stessa famiglia, sia l’aiuto reciproco tra le famiglie”. (n.29).

E’ significativo inoltre che la Nota CEI “La pastorale della salute nella Chiesa italiana” del 1989 nell’elenco dei soggetti della pastorale della salute mette la famiglia al terzo posto, dopo la comunità cristiana e lo stesso malato. In questo documento viene ricordata ai membri della famiglia la loro responsabilità di presenza premurosa e di accompagnamento spirituale del loro congiunto e si ribadisce il bisogno di sostegno degli stessi da parte della comunità, “per vivere senza smarrirsi il peso imposto dalla malattia e …aiutarli a scoprire nella dolorosa stagione della sofferenza preziosi valori umani e spirituali” (n. 37).

Negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni ’90 “Evangelizzazione e testimonianza della carità” è sottolineato il ruolo centrale della famiglia in occasione del ricovero di un proprio congiunto: “Negli ospedali e nelle case di cura, dove la carità si misura con il mistero della sofferenza e dove più grave è il costo di ogni mancanza di attenzione alla dignità della persona, occorre assicurare sempre l’assistenza religiosa dei degenti, promuovere capillarmente la formazione morale e spirituale degli operatori sanitari, sviluppare una presenza costante del volontariato e ancor più salvaguardare lo spazio dei legami familiari, perché la famiglia resta in ogni situazione, la più originaria espressione dell’amore e della condivisione”. (n.48).

Anche il Direttorio di Pastorale familiare (1993) sottolinea cosa può dare e cosa può ricevere ogni componente del nucleo familiare nell’esperienza della sofferenza e nelle occasioni di presenza della malattia al proprio interno: “La presenza nella comunità familiare di persone gravemente malate o di figli o altri membri handicappati è causa di profondi disagi e determina spesso situazioni non facilmente sopportabili: le famiglie si sentono isolate, abbandonate, non accolte e  non mancano momenti di scoraggiamento o addirittura di disperazione”.

E’ anche vero però che in questi contesti di sofferenza si sanno dischiudere prospettive di grande carità, affetto, dolcezza e maturità umana. La presenza di malati, handicappati e sofferenti sa sprigionare nelle famiglie risorse inaspettate di condivisione, di prossimità, di scoperta del senso più genuino della vita. La sofferenza può diventare così avvicinamento più vero al mistero di Dio, come pure avvicinamento al mistero dell’uomo, nella riscoperta di aver bisogno degli altri, di fraternità più limpida e sciolta al di là di ogni barriera o distinzione”. (n. 119)

La persona umana, costituita a immagine e somiglianza di Dio Trinità, nasce per vivere in relazione con gli altri. Essa cresce, si sviluppa in questo rapporto costante e fecondo di comunione, nella reciprocità dell’amore con gli altri.

Anche la struttura familiare ha e deve vivere e mostrare una dinamica trinitaria. Di qui la necessità del recupero della dimensione relazionale, che aiuta a sopportare la sofferenza, nella condivisione solidale, rendendo il dolore più accettabile. Nessuno si può sostituire a chi soffre, ma tutti possiamo contribuire ad aiutare la persona a reggere la prova della sofferenza.

Nel trapasso dalla società rurale alla società urbana, a causa del fenomeno della industrializzazione, sono andate perdute molte dinamiche comunitarie familiari, non ultima quella cordata affettuosa di condivisione e di sostegno nell’esperienza del dolore, che aiutava i singoli membri a non disperare nei momenti duri della prova.

La vita oggi è mediamente più lunga e questo sottintende il prolungamento di condizioni di sofferenza fisica e spesso anche affettive e psicologiche. Il fatto che spesso si viva dieci anni di più non vuol dire che si viva bene o meglio, ma solo di più. Se a questo non si accompagna un interesse della famiglia e della società, che si mostrano capaci di farsi presenti, non si è migliorata la qualità della vita, ma solo prolungata una sofferenza, che spesso si spegne all’interno di case di riposo per anziani o negli ospedali.

Oggi spesso si muore in profonda solitudine, in un clima disumano, poco attento alla persona e ai suoi bisogni, non solo di carattere sanitario, ma specialmente affettivi e spirituali, i familiari spesso delegano i medici, infermieri e badanti per la cura del malato.

Valorizzare la famiglia come comunità solidale significa riconoscerne il valore insostituibile e dunque bisogna sostenerla attivamente in tutte le sue funzioni, specialmente in ordine ai malati, agli anziani, ai disabili, agli psicopatici. C’è da chiedersi quanto la pastorale della Chiesa attuale raggiunga, facendosi prossima, le persone ammalate e soprattutto i moribondi, accompagnandole nel processo del morire e, al tempo stesso, evangelizzando i congiunti.

Il mondo della salute ha bisogno di essere evangelizzato, ma questo non soltanto in riferimento ai malati e agli operatori sanitari, ma anche a tutte quelle persone che, in modo più diverso, verranno a contatto col malato e la sua malattia, in primo luogo i familiari. I primi evangelizzatori per i malati sono i familiari e i primi evangelizzatori per i familiari sono i malati stessi, e ambedue per tutta la comunità cristiana. La comunità a sua volta, come comunità di battezzati, non dimentichi questo mondo nella sua missione evangelizzatrice.

Purtroppo anche con i malati si fa molta sacramentalizzazione, ma poca evangelizzazione. Come sarebbe più fruttuoso se a qualche Primo Venerdì per la Comunione, si aggiungesse anche qualche altro giorno per l’evangelizzazione.

Mi si potrebbe obiettare: “Ma tutto questo tempo dove lo troviamo?”. Occorre trovarlo il tempo. Gesù ci ha lasciato questa missione: “Annunciate il Vangelo e curate gli infermi”, e Lui stesso dovunque andava, mostrava compassione e predilezione per questa gente e “guariva ogni sorta di infermità nel popolo”. La pastorale degli infermi, quindi, è parte integrante del nostro ministero sacerdotale, e non la possiamo svolgere se e quando tutte le altre attività pastorali ce lo consentono. Le nostre comunità ce lo chiedono, i nostri malati se lo aspettano.

In passato per aver troppo trascurato una sana evangelizzazione del mondo della malattia, oggi ci ritroviamo una comunità cristiana in cui molti hanno una visione alquanto distorta della sofferenza, del dolore, della malattia e della morte: la visione doloristica e punitiva della malattia stenta ad essere debellata, e i sacramenti vengono visti spesso come gesti di magia e il sacerdote come una sorta di guaritore.

  Qualche riflessione ora sulla famiglia come “oggetto” della pastorale.

Sono in aumento le famiglie con anziani e malati in casa. Gli anziani, in molti casi, si preferisce tenerli in casa, piuttosto che in case di riposo, perché sono fonte di sussistenza  con le loro pensioni, in un periodo estremamente precario dal punto di vista economico. Aumentano in famiglia i malati cronici che gli ospedali non possono ospitare e non si possono inviare in strutture adeguate, perché economicamente impossibilitati. Aumentano i malati oncologici, che, superata la fase acuta della malattia, vengono rinviati a casa dagli ospedali. Ciò è dovuto anche al fatto che ci si sta orientando anche verso una palliazione domiciliare.

In questi frangenti la famiglia spesso viene lasciata sola, col peso dei suoi malati, poiché troppo consolidata è l’attenzione al solo malato e si  fa fatica a staccarsi da certi stereotipi.

   Se consideriamo che:

  1. Saltano i normali parametri della vita familiare, i ritmi e le abitudini vengono sconvolti, comunque la vita continua con i suoi impegni e bisogna adattarsi a situazioni nuove e inaspettate;
  2. Se viene colpito il capo-famiglia, colui che, come si suol dire, “porta i soldi a casa”, si indebolisce il flusso economico, magari in un momento in cui i bisogni aumentano. Per i figli cominciano a traballare certe sicurezze, perché si è indebolito il perno intorno al quale tutto ruotava, anche affettivamente;
  3. Se viene colpita la mamma, la famiglia si disorienta, scende il buio affettivo. Quante volte mi è capitato di vedere mariti e figli smarriti e spaesati in questi casi, come tanti pesci fuor d’acqua, con un senso di vuoto e di solitudine.
  4. Se viene colpito un figlio, specie se in tenera età, la famiglia esplode; tutto si riesce ad accettare e sopportare, anche la propria malattia, ma non la malattia di un figlio, specie se all’orizzonte aleggia il fantasma della morte;
  5. La famiglia, visitata dalla malattia, specie se oncologica, tende a chiudersi, a isolarsi dal contesto sociale, o per vergogna, o per dolore, o per evitare inutili e offensivi compiangimenti, o perché non si vuol gravare sugli altri, o perché di fronte a questi eventi si tende a fuggire in quanto evocatori di morte;
  6. In queste situazioni le preoccupazioni li soverchiano, i nervi sono a pezzi, la tensione è alle stelle, gli equilibri psico-affettivi traballano, si tende ciascuno a chiudersi nella propria sofferenza, proprio nel momento in cui sarebbe necessario sostenersi a vicenda, e quindi tutte quelle belle cose che insegniamo sul matrimonio in questo momento vanno in crisi; ci sarebbe più facile essere presenti e nelle maniere più appropriate.

In queste situazioni, in cui Dio è il primo imputato, non servono pietismi, né teologie sulla sofferenza, né filosofie sulla vita. Un silenzio che sa farsi presenza, calore affettivo, otterrebbe più effetto e sarebbe più fruttuoso di qualsiasi altro discorso.

Se è vero, come è stato accennato durante l’ultimo Convegno diocesano, che si può arrivare alle famiglie attraverso i ragazzi, potrebbe essere altrettanto vero che si può entrare nelle famiglie attraverso i malati, con una differenza: che non tutti i bambini frequentano il catechismo, mentre in una famiglia dove c’è un malato una visita discreta sarà sempre gradita. E vorrei aggiungere: con un alto tasso di denatalità, come quella che affligge questa moderna società italiana (l’Italia già da qualche anno è il primo paese in Europa a crescita 0), e con gli anziani e malati in costante aumento, chissà che un giorno non ci rimanga questa come una delle poche e preferenziali vie di accesso alla famiglia?

Don Mario Lorenzo Colella

Ufficio diocesano Pastorale della Salute

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