Incontro di Formazione del Clero – Mons. Domenico Sigalini

L’evangelizzazione: una gioia che  il popolo di Dio comunica,

assieme,  per tutta  la persona, tutta la società.

Premessa

In questa seconda riflessione tenterei, a partire dalla Evangelii Gaudium,  di porre le basi per una pastorale condivisa da tutta una chiesa diocesana, che va alla persona e non alle specificazioni degli uffici  o del ruolo del singolo prete (giovani, bambini, adulti, coppie, famiglie…) che debbono assolutamente collaborare ed essere corresponsabili della figura di un cristiano maturo sia per la sua età e il suo ruolo, ma per la vita soprattutto,  in maniera globale.

 

In quale contesto socio religioso viviamo?

Togliamoci l’idea che sia in atto ancora una secolarizzazione come l’abbiamo patita dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni’80, quando si vedeva che la gente si allontanava sempre più dalla chiesa e da ogni forma di religione. La nostra crisi non avviene in un contesto di secolarizzazione o dentro un declino della religione, anzi siamo in un boom religioso (religious booming), un momento di crisi della laicità. E’ una religiosità diversa dal cattolicesimo classico, che nella religione vedeva un ancorarsi a principi validi anche per la vita pubblica.

Dalla fine degli anni ’60 è trascorsa un’era, non mezzo secolo. Il Concilio con le indicazioni di Montini ha capito questo cambiamento. E la chiesa si è rimessa a trascrivere nel concreto le indicazioni conciliari; ma oggi oltre al cattolicesimo sta avanzando una forma religiosa detta anche  “religione a bassa intensità” (low intensity religion) che tende a svuotare i sentimenti religiosi, della bellezza della fede cattolica.

Che è questa religione a bassa intensità?

Ha davanti a sé delle persone che sono viste come consumatori di religione e allora ne assume tutti gli elementi che li caratterizzano e li accontenta come si fa con tutti i consumatori.

Concede al consumatore religioso una infinita capacità di scelta, come facile ricombinazione tra beni e servizi che ci sono sul mercato religioso

Offre grandi possibilità e occasioni anche alle autorità religiose, se queste sanno abbassare le pretese normative.

Concede estrema flessibilità,  grande indulgenza nei confronti della espressività, una riserva di simboli e riti, a patto che si liberino dei vecchi scrupoli dell’ortodossia e della orto prassi. Non ci sono quindi principi teologici obbligatori, comportamenti morali definiti,  verità grandi donate da Dio e accolte con stupore e gratitudine

Si accetta di avere meno rilevanza in cambio di ottenere  maggiore visibilità.

Il punto di arrivo è una facile e larga omologazione.

La sociologia studia questa religione a bassa intensità come quando studia fenomeni di intrattenimento e di divertimento; quindi sono proprio parenti stretti

Non ci meravigliamo allora se nella mentalità di molta della nostra gente che va in chiesa o che le gira attorno si adottano forme di una religione a bassa intensità. Alcuni esempi:

  • il matrimonio cristiano con la sua fedeltà, unicità, apertura alla vita, per sempre è inconcepibile  per questa religione a bassa intensità. E’ troppo rigida questa impostazione; oggi i consumatori desiderano altro!
  • i laici non sono più da aiutare a farsi corresponsabili della chiesa e dell’evangelizzazione, ma solo dei consumatori; ne va di mezzo il profilo del prete che diventa uomo in solitudine a reggere un marketing faticoso
  • vanno in crisi le vocazioni alla vita religiosa soprattutto femminile. Che cosa fanno di utile le suore in convento, non parliamo delle contemplative in clausura!

La nostra gente non è tentata da  fondamentalismo o da tradizionalismo radicale, non si stabilisce in essa una contrapposizione tra progressisti e conservatori, come si dice sempre, ma siamo tutti trapassati da correnti religiose a bassa intensità. Tutti i nostri problemi nascono dall’assimilare il cattolicesimo solo a religione e per di più a bassa intensità.

L’affermarsi di un  cattolicesimo in Italia solo come religione e per di più a bassa intensità non è immediato, ma molto più vicino di 10 anni fa. L’Italia centrale, proprio dove viviamo noi, appare in difficoltà molto maggiori della media, i suoi confini si stanno allargando a Nord e a Sud.

Una controtendenza sta in alcune “isole” del Nord e del Sud, che tra l’altro usano metodi molto diversi per le loro configurazione storico-culturale. Questo significa che non c’è un’unica ricetta pastorale che ci porta fuori dal guado, che ci permetta di rinnovare la forma ecclesiale della dimensione religiosa del cattolicesimo perché non diventi religione a bassa intensità.

Qui allora occorre assolutamente che il clero operi un profondo discernimento ecclesiale. Non sottostimiamo la diminuzione progressiva del clero, ma è più importante leggere, approfondire, ricercare le cause del declino del profilo istituzionale del clero. Capite che l’ordinazione delle donne o di uomini sposati non cambia il problema e soprattutto non lo risolve. Il prete è un uomo di marketing o un uomo di fede?

L’insegnamento del Vaticano II e del magistero successivo, per le loro implicazioni sociali sono consapevoli e attrezzati per questa sfida. L’insegnamento e la prassi di Papa Francesco sono assolutamente necessarie per questo prospettiva

 

Il tutto è superiore alla parte

Un altro elemento da chiarire per il nostro tema che vuole mettere le basi o aiutare una pastorale integrata è il superamento della frammentazione. Prendiamo per aiutarci meglio uno dei quattro principi che il papa propone: il tutto è superiore alla parte. Viene introdotto per sciogliere il dilemma tra globalizzazione e identità locale, evitando due estremi opposti: da un lato che «i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante; dall’altro, «che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini» (EG, 234). L’invito alla sintesi corrisponde, nella migliore tradizione cristiana, al principio del bene comune. C’è un dibattito oggi sui cosiddetti «beni comuni» (come l’acqua, l’ossigeno, l’atmosfera, il verde…), o meglio dei beni di uso collettivo. Bene comune si dice solo al singolare, per indicare il bene nella sua massima portata inclusiva e universalista.

Papa Francesco ci ricorda che le parti «partecipano» dell’intero solo nella misura in cui c’è un bene che accomuna. Il bene che accomuna, a livello umano, è soprattutto un bene morale, più che un insieme di beni naturali; in tal senso esso investe primariamente la qualità delle relazioni tra persone. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa lo intende chiaramente «come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (n. 165). Certamente ci sono dei beni di uso collettivo, che tuttavia potremmo usare anche in maniera individualistica, addirittura selvaggiamente egoistica. Il bene comune è la qualità delle relazioni che trasformano tanti «io» in un unico «noi».

Evangelii gaudium ci offre altresì un’indicazione di metodo per metterci su questa strada, utile anche per l’azione pastorale: si tratta di puntare non a una «parzialità isolata che rende sterili» né ad un «sfera globale che annulla» (EG, 235); dunque non una mera sommatoria di punti di vista né una sintesi omologante (come suggerisce la metafora della sfera, nella quale si perdono le differenze), ma una capacità di fermentare la massa, assumendo come modello «il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (EG, 236).

Solo a partire da un esercizio reale di discernimento comunitario, possiamo entrare in dialogo con la domanda o voglia di comunità che è al fondo del nostro cuore, in nome di più autentiche esperienze di partecipazione civile che riescano a sconfiggere i populismi dilaganti. Il comune non è il globale, la vera partecipazione non è quella che comincia da me o da te o da lui; è quella che comincia da noi, da un noi che ci precede e ci supera, al quale la fede riconosce un volto trinitario. Come dicevamo nel primo intervento, il presbiterio è un noi assieme al vescovo, non è la somma di tanti individui. Articolare in modo polifonico e comunitario la società delle differenze, impedendo che degeneri nel deserto dell’indifferenza o nella roccaforte dell’intolleranza: ecco uno dei compiti di una cultura del futuro, in cui i credenti non potranno occupare posizioni di retroguardia. Le nostre parrocchie devono essere significative al riguardo e possono dare questo necessario contributo alla società. Le nostre comunità cristiane devono essere non solo esempio, ma anche operatori attivi di comunione tra le persone aiutandole a superare particolarismi assurdi. I paesi più piccoli, le parrocchie più piccole sono quelle che hanno maggior litigiosità. Non è possibile!

Proprio per questo, Evangelii gaudium ci è affidato non come un documento da leggere e archiviare, ma prima di tutto come un testo programmatico, generativo, di cui dobbiamo esplorare, attraverso una sorta di work in progress a livello pastorale, le potenzialità ancora latenti e inespresse.

Entro questo grande quadro c’è una visione di chiesa che papa Francesco spesso ci offre, verso la quale ci stimola, e che è il gioco nuovo che dobbiamo inventarci dentro le strutture, le comunità, i gruppi, le aggregazioni di cristiani.

Sopra tutto c’è un imperativo:

 

“Uscire ” per incontrare

La Gaudium et Spes vedeva le antinomie, ma non parlava di una civiltà alla deriva e diceva che c’era una generale aspirazione a Dio nell’umanità con un mondo visto sempre in crescita verso una maggiore autonomia e responsabilità.

Papa Francesco invece coglie nel mondo una sofferenza che lo rende triste. Il mondo soffre perché è triste;  è come il lago di Genezareth in cui si alzerà il vento, creerà sconquasso, ma Dio ci riserverà grandi cose.

 

Il lavoro della chiesa è  creare comunità, fare Eucaristia. Se la società è una giungla e lo stare insieme è finalizzato all’imbroglio, al sopruso, sia maledetto chi compie questo. La mafia, la ndrangheta è scomunicata proprio per questo. La scomunica gridata alla ndrangheta è un programma di governo alternativo. La Bibbia è più forte e più decisa di quanto si pensi.

Il suo pontificato è giocato nella metà del campo avversario. Papa Francesco vuol mettere in movimento una chiesa bloccata[1].

Ieri, per esempio, qualsiasi discorso dei vescovi era una ingerenza. Oggi tutti si sentono di ingerire nella chiesa, proprio perché papa Francesco sta con tutti, nel loro campo.

 

La chiesa è vista come un grande ospedale da campo che ha questi reparti:

psichiatria: Dio si rivela un po’ per volta nelle acque profonde e oscure. E’ un errore convincere il mondo della razionalità di Dio. Le idee classificano, ma non coinvolgono. Occorre raccontare le meraviglie della salvezza

ortopedia, ridurre la frattura, il mondo sarà redento dalla pazienza di Dio. La risurrezione si compie a Emmaus. Così papa Francesco ha tentato di ridurre la frattura tra ebrei e palestinesi, tra corea del Nord e del Sud. E’ un lavoro paziente e che non sempre riesce.

cardiologia, le arterie del mondo sono bloccate, occorre inserire nuova linfa, usare cardioaspirine come il rosario e la misericordina per esempio. Se il cuore è grave, prima curo quello, poi passerò ad altre cure. Se la moralità è sballata prima tento di portarla in equilibrio, poi farò la cura intera.

omeopatia, assume a dosi omeopatiche il veleno per poterlo poi combattere definitivamente; così è della barbarie del relativismo, della dissolutezza di tante situazioni di peccato, dei matrimoni gay.

Occorre intercettare il cammino di chi è scappato, scendere nelle loro oscurità e portarli lentamente a riconoscersi nello spezzare il pane. Non interessano momenti di destabilizzazione, basta che si riesca a comunicare la verità che si rapporta e chiede conferma nella dignità della persona e nella libertà di essa, come dice la GS. Prima di fare la battaglia occorre confondersi per ascoltare e farsi ascoltare come ha sempre fatto la chiesa con le nuove culture (barbari, romani, orientali…)

 

Un nuovo modo di pensarci come persone e come cristiani

 

Siamo arrivati alla fine di una grande illusione, che forse era necessaria. Molti hanno spinto a sostenere che la libertà è immaginare l’uomo, se stessi, come un io: concepire persona e individuo come degli equivalenti. La persona non è l’individuo. E non è l’io. La persona, nella lingua italiana, nella lingua latina e nel 95% delle lingue del mondo, è almeno tre persone (pronomi) singolari e tre persone plurali e noi, come minimo, siamo sei e l’io è una delle cose più complicate e difficili da definire. L’esperienza che ognuno fa di sé innanzitutto è quella di essere un tu. Il marito è un tu per la moglie, il papà è un tu per il figlio; il prete è un tu per il vescovo, è un egli per i parrocchiani o per gli alunni, se è insegnante. L’io è definito se ci sono il tu e gli altri. Esistiamo come un io perché siamo un tu e un egli.  A un certo punto siamo entrati in una specie di follia dal punto di vista dell’immaginario di noi stessi. Lo dicono spesso nella pubblicità: «Il mondo gira intorno a te», «La banca gira intorno a te», “Siamo qui solo per te, siamo la tua salute”. Un padre, tempo fa, uccise le due figlie e la moglie e portava come motivo che con loro si sentiva in prigione. Ed era sincero, perché, se si cresce con questa idea dell’io, è chiaro che l’altro è sempre una prigione. Si creano nelle persone questi stranissimi bisogni che ruotano, che si spostano, a cui devi sempre dare soddisfazione immaginando che sei potente, che devi agire con questa boria e che l’unico modo di agire è fare una esperienza tutta tua espandendo il tuo io. La base antropologica su cui si è fatta l’espansione economica è quella che si orienta a un modello infinito, perché si  immagina che il nostro io si espanda all’infinito.

Tutti noi abbiamo a cuore la famiglia; ne siamo convinti e facciamo di tutto per sostenerla, difenderla, promuoverla, ma occorre assolutamente uscire dalla retorica. E questo esige che si viva la famiglia proprio con un cambiamento di mentalità, che non mette al centro l’io, ma rifonda le relazioni, la gioia dello stare assieme e crescere assieme, dove tutti riconoscono questo essere altro rispetto agli altri ed essere altro con gli altri: la famiglia non può essere la stanza degli egoismi, ma la decisione di dono. La famiglia è collegata e vive con le altre famiglie. Altrimenti sarà difficile La prima causa di omicidio oggi è la famiglia. Abbiamo superato il 37% di omicidi in famiglia. Siamo a due omicidi alla settimana. «Ah, ma erano bravissimi». Si dice sempre così. «Erano normali». Una considerazione va fatta anche sulle abitazioni in cui vive la maggior parte della famiglie soprattutto in grossi centri urbani. Il nostro ideale è che ciascuna famiglia si chiuda nel suo appartamento. Che cosa vuol dire la parola appartamento? Separazione. Immaginare la famiglia come un nucleo chiuso che sta dentro un luogo chiuso è una follia, con l’io tra l’altro che vuole espandersi in quel modo che dicevamo sopra. Prima o poi scoppia. È come metterci una bomba a orologeria. Non stiamo facendo una azienda che costruisce abitazioni, ma come chiesa è necessario che riflettiamo anche su questo. Non è nostalgia delle vecchie aie, dei cortili dove ogni uscio dava su uno spazio di comunicazione immediata, ma almeno a delle abitazioni che permettano solidarietà, aiuto reciproco, non paura, difesa, isolamento, liti di condominio. Più crea comunicazione, più la parrocchia è luogo di vita.

Grazie a Dio, però, anche questo eccessivo concentrarsi sull’io, sull’isolamento è in crisi perché ha troppi costi. Troppi costi in farmaci: non abbiamo mai avuto al mondo un così alto consumo di psicofarmaci. Troppi costi alimentari: non abbiamo mai avuto al mondo un numero così grande di obesi. Troppo alto il costo (economico) in termini di divorzi, di separazioni.

E’paradossale che siamo costretti a ragionare sul bene delle persone e a  cambiare mentalità a partire dall’economia, ma noi cattolici sappiamo di essere in una fraternità ispirata dalla Trinità come esempio, forza e traguardo. Il nostro Dio è comunità, non è un single, un individuo, tanto meno la somma di tre individui. La parola fraternità può cominciare ad assumere qualche connotato di senso, se  in essa si riconosce l’alterità e il tuo prossimo come te stesso. E se i presbiteri si fanno guerra l’uno contro l’altro? Se vivono ciascuno a fare il papa, re e profeta nella sua parrocchia?  Questo non è un tema solo religioso, ma è un grande tema di convivenza civile.

Verso quali scelte orientare la nostra presenza cristiana che ha sanissimi principi di vita comune, di comunione, di comunità, ma che non riesce a permeare di questo spirito la nostra realtà? Purtroppo come cristiani ci siamo adattati, non solo, ma siamo diventati noi attori di assurde economie, di fallimentari investimenti economici,  di demissione di nostre responsabilità allo stato.

Tanti errori li abbiamo prodotti anche noi perché abbiamo perso per strada gli ideali; quando si fa carità verso il terzo mondo e non verso i concittadini, quando non si compiono cammini di ricupero delle nostre responsabilità. Non siamo riusciti ad essere fermi e abbiamo svenduto. Oggi serve non essere accomodanti al ribasso, ma schietti e esigenti.

 

Liturgia, catechesi, carità: una unità necessaria per educare cristiani maturi e cittadini onesti

 

Chiamerei queste tre dimensioni della vita di una comunità cristiana con termini più comprensibili anche al di fuori dei nostri ambienti, invertendo l’ordine come avviene in pratica nel nostro lavoro di evangelizzazione: annuncio, celebrazione, testimonianza della carità, dove la carità non è la Caritas intesa come aiuto alle povertà materiali, ma l’attenzione a tutte le povertà umane, comprese quelle culturali e spirituali.

La scelta di questi tre ambiti non è un privilegiare alcuni uffici pastorali e dimenticare o sottovalutare gli altri, forse anche quelli più concreti e più percepiti dalla gente; non è dimenticare i giovani, o il lavoro o le missioni, ma mettere in evidenza le forme che devono investire ogni attenzione educativa e di conseguenza ogni azione della chiesa.

Annuncio, celebrazione e testimonianza sono da declinare in ogni struttura pastorale, in ogni soggetto o condizione del cristiano e non sono esclusiva degli uffici liturgico o catechistico o della Caritas. Non ci confrontiamo con tre uffici, ma con tre dimensioni che stanno alla base di un progetto educativo specifico di una comunità cristiana. Che cosa fa la pastorale giovanile se non si definisce nell’annuncio, nella celebrazione e nella testimonianza? E così la famiglia, il lavoro, le missioni… Ciascuno con il suo taglio, la sua riscrittura intelligente, mette a disposizione di tutti la sua peculiarità e stana da giovani, famiglie, lavoratori, operatori dei mass media, tutto quanto di bello possono mettere a disposizione di tutti. E’ importante però che l’unità progettuale parta da queste tre dimensioni.

L’unità è possibile, attuabile, e, ancor prima di essere codificata in testi o programmi che si elaborano assieme, è scritta nella formazione di ogni credente che deve assolutamente farsi convertire dall’annuncio, essere vivo nella celebrazione e decidere di mettersi a disposizione nella carità. Se il percorso educativo globale che abbiamo scelto è sintesi di queste tre dimensioni non è possibile pensare l’educazione se non in una continua mutua relazione di annuncio, celebrazione e testimonianza, in una logica reticolare, in cui il punto di partenza è lasciato alla vita, alla creatività delle persone, alla complessità dei tempi moderni, alla liquidità della nostra società, dentro la quale lo Spirito esprime tutta la sua libertà. A noi tocca presidiare e dedicarci alle connessioni tra i diversi punti, garantire il massimo di relazioni e di passaggi. Non è importante oggi un prima e un poi temporale, assolutamente standardizzato, ma il processo completo nella sua globalità e quindi aperto a tutte le varie impostazioni culturali, che la comunità discerne. Il punto di arrivo è sempre questo conformarsi a Cristo; e, geneticamente, non temporalmente, il primo passo è l’annuncio.

La distinzione delle tre dimensioni è necessaria perché ciascuna deve esprimere non solo un suo punto di vista, ma la ricchezza che le viene consegnata per costruire un autentica esperienza credente. Annuncio, che già in se stesso non può non contenere l’unità con la celebrazione e la testimonianza, è oggi soprattutto primo annuncio, come dimensione normale nella quotidianità dei cammini formativi parrocchiali e no. Ogni intervento formativo non deve dare per scontata l’adesione di fede, ma deve continuamente renderla incandescente, perché così lo esige la nostra vita, la complessità e il cumulo di distrazioni della nostra società. La celebrazione è farsi convertire dai sacramenti e non solo prepararsi ai sacramenti, è tenere l’uomo al suo posto e aiutarlo a farsi accogliente di un mondo altro che illumina il suo, che lo aiuta a dare senso al suo presente. E’ investire del dono di Dio la persona anche nella sua corporeità. E’ presidiare la vita cristiana perché l’annuncio cristiano non si trasformi in propaganda, l’impegno di testimonianza non perda il suo vero sapore e la preghiera o la liturgia non degeneri in evasione. E’ collocare nella vita un giorno del Signore, assoluto, indisponibile, ma tanto decisivo nel costruire persone mature e nuove e non cristiani a intermittenza. La carità è dono di Dio da accogliere proprio contestualmente all’uomo da servire, è impostare al vita sulla logica del dono e non dello scambio. Lo scambio misura ogni cosa, persone comprese; il dono le accoglie e dimentica pesi e misure.

Allegato

Due grandi tentativi di fare pastorale integrata: il convegno di Verona e il convegno di Firenze

Il Convegno di Verona

  1. Vita affettiva

Comunicare il Vangelo dell’amore nella e attraverso l’esperienza umana degli affetti chiede di mostrare il volto materno della Chiesa, accompagnando la vita delle persone con una proposta che sappia proporre e motivare la bellezza dell’insegnamento evangelico sull’amore, reagendo al diffuso “analfabetismo affettivo” con percorsi formativi adeguati e una vita familiare ed ecclesiale fondata su relazioni profonde e curate. La famiglia rappresenta il luogo fondamentale e privilegiato dell’esperienza affettiva. Di conseguenza, essa deve essere anche il soggetto centrale della vita ecclesiale, grembo vitale di educazione alla fede e cellula primaria della vita sociale. Ciò richiede un’attenzione pastorale privilegiata per la sua formazione umana e spirituale, insieme al rispetto dei suoi tempi e delle sue esigenze. Per questo siamo chiamati a rendere le comunità cristiane maggiormente capaci di curare le ferite dei figli più deboli, dei diversamente abili, delle famiglie disgregate e di quelle forzatamente separate a causa dell’emigrazione,  prendendoci cura con tenerezza di ogni fragilità e nel contempo orientando su vie sicure i passi dell’uomo.

 

  1. Lavoro e festa

Il rapporto con il tempo, in cui si esplica l’attività del lavoro dell’uomo e il suo riposo, pone forti provocazioni al credente, condizionato dai vorticosi cambiamenti sociali e tentato da nuove forme di idolatria. Occorre pertanto chiedere che l’organizzazione del lavoro sia attenta ai tempi della famiglia e accompagnare le persone nelle fatiche quotidiane, consapevoli delle sfide che derivano dalla precarietà del lavoro, soprattutto giovanile, dalla disoccupazione, dalla difficoltà del reinserimento lavorativo in età adulta, dallo sfruttamento della manodopera minorile, degli immigrati e delle donne. Anche se cambiano le modalità in cui si esprime il lavoro, non deve venir meno il rispetto dei diritti inalienabili del lavoratore: “Quanto più profondi sono i cambiamenti, tanto più deciso deve essere l’impegno dell’intelligenza e della volontà per tutelare la dignità del lavoro”[2]. Altrettanto urgente è il rinnovamento, secondo la prospettiva cristiana, del rapporto tra lavoro e festa: non è soltanto il lavoro a trovare compimento nella festa come occasione di riposo, ma è soprattutto la festa, evento della gratuità e del dono, a ‘risuscitare’ il lavoro a servizio dell’edificazione della comunità, aiutando a sviluppare una giusta visione creaturale ed escatologica. La qualità delle nostre celebrazioni è fattore decisivo per acquisire tale coscienza. Occorre poi favorire una maggiore conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli dedicati alle relazioni umane e familiari, perché l’autentico benessere non è assicurato solo da un tenore di vita dignitoso, ma anche da una buona qualità dei rapporti interpersonali. In questo quadro, grande giovamento potrà venire da un adeguato approfondimento della dottrina sociale della Chiesa, sia potenziando la formazione capillare sia proponendo stili di vita, personali e sociali, coerenti. Assai significative sono in proposito le risorse offerte dallo sport e dal turismo.

 

  1. Fragilità umana

In un’epoca che coltiva il mito dell’efficienza fisica e di una libertà svincolata da ogni limite, le molteplici espressioni della fragilità umana sono spesso nascoste ma nient’affatto superate. Il loro riconoscimento, scevro da ostentazioni ipocrite, è il punto di partenza per una Chiesa consapevole di avere una parola di senso e di speranza per ogni persona che vive la debolezza delle diverse forme di sofferenza, della precarietà, del limite, della povertà relazionale. Gesù Cristo, infatti, ci mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della sofferenza e della morte nella luce della risurrezione. La vera forza è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato e donato a noi nel Mistero pasquale. All’annuncio evangelico si accompagna l’opera dei credenti, impegnati ad adattare i percorsi educativi, a potenziare la cooperazione e la solidarietà, a diffondere una cultura e una prassi di accoglienza della vita, a denunciare le ingiustizie sociali, a curare la formazione del volontariato. Le diverse esperienze di evangelizzazione della fragilità umana, anche grazie all’apporto dei consacrati e dei diaconi permanenti, danno forma a un ricco patrimonio di umanità e di condivisione, che esprime la fantasia della carità e la sollecitudine della Chiesa verso ogni uomo.

 

  1. Tradizione

 Nella trasmissione del proprio patrimonio spirituale e culturale ogni generazione si misura con un compito di straordinaria importanza e delicatezza, che costituisce un vero e proprio esercizio di speranza. Alla famiglia deve essere riconosciuto il ruolo primario nella trasmissione dei valori fondamentali della vita e nell’educazione alla fede e all’amore, sollecitandola a svolgere il proprio compito e integrandolo nella comunità cristiana. Il diffuso clima di sfiducia nei confronti dell’educazione rende ancor più necessaria e preziosa l’opera formativa che proprio la comunità deve svolgere in tutte le sedi, ricorrendo in particolare alle scuole e alle istituzioni universitarie. In modo del tutto peculiare, poi, la parrocchia costituisce una palestra di educazione permanente alla comunione, e perciò anche un ambito di confronto, assimilazione e trasformazione di linguaggi e comportamenti. In tale prospettiva, essa è chiamata a interagire con la ricca e variegata esperienza formativa delle associazioni, dei movimenti e delle nuove realtà ecclesiali. La sfida educativa tocca ogni ambito del vissuto umano e si serve di molteplici strumenti e occasioni, a cominciare dai mezzi della comunicazione sociale e dalle possibilità offerte dalla religiosità popolare, dai pellegrinaggi e dal patrimonio artistico. Nella valorizzazione dei diversi apporti, alle Chiese locali è chiesto di coniugare l’elaborazione culturale con la formulazione di un vero e proprio progetto formativo permanente.

 

  1. Cittadinanza

Il bisogno di una formazione integrale e permanente appare urgente anche per dare contenuto e qualità al complesso esercizio della testimonianza nella sfera sociale e politica. A tale riguardo, sarà opportuno far tesoro della riflessione e delle opere maturate in cento anni dalle Settimane sociali dei cattolici italiani. Come ricorda il documento preparatorio della prossima 45ª Settimana sociale: “Agli occhi della storia non si può non riconoscere che i cattolici hanno dato un apporto fondamentale alla società italiana e alla sua crescita, nella prospettiva del bene comune. È necessario alimentare la consapevolezza, non solo fra i cattolici ma in tutti gli italiani, del fatto che la presenza cattolica – come pensiero, come cultura, come esperienza politica e sociale – è stata fattore fondamentale e imprescindibile nella storia del Paese”[3]. Se oggi il tessuto della convivenza civile si mostra lacerato e deteriorato, ai credenti si chiede di contribuire allo sviluppo di un ethos condiviso, non limitandosi alla pur doverosa enunciazione dei principi, ma esprimendo nei fatti un approccio alla realtà sociale ispirato alla speranza cristiana, capace di guardare con simpatia al cambiamento. Ciò esige l’elaborazione di una seria proposta culturale, condotta con intelligenza, fedele ai valori evangelici e al Magistero. Implica una rivisitazione costante dei diritti individuali nella ricerca del bene comune e dovrà promuovere occasioni  di confronto tra uomini e donne dotati di competenze e professionalità diverse. Un’attenzione particolare dovrà essere dedicata alle conseguenze che derivano, per il senso di appartenenza alla collettività civile ed ecclesiale, dal fenomeno della migrazione.

 

 

Il convegno di Firenze (dall’intervento di Galantino a Napoli in febbraio 2015)

Le Cinque vie

 

  1. Uscire

Conosciamo tutti – se non altro perché siamo stati adolescenti – quell’andare senza meta e senza direzione che trasforma l’esistenza in un vagare un po’ alla cieca, sempre insoddisfatti e insieme persino incapaci di saperne giustificare le cause. A ben vedere, anche tanto attivismo che connota la vita di molti adulti – non esclusa quella delle nostre comunità – non si allontana da questa fotografia.

L’uscire a cui guardiamo – e che rimanda a una precisa consegna di Papa Francesco – è tutt’altro. Chiede una Chiesa dal bagaglio leggero: quanta zavorra contribuisce a frenarne il passo e a chiudere la porta alla condivisione e alla reciprocità! Per questo l’Evangelii gaudium non esita a legare la riforma della Chiesa all’uscita missionaria. È solo in questo modo, infatti, che ci poniamo nella condizione di osservare da vicino la realtà, in un’esposizione che ci aiuta a riconoscere e accogliere quanto di buono il vento dello Spirito già ha seminato nei solchi della terra e a focalizzare il senso della nostra azione.

Uscire, inoltre, è voce pro-attiva: si tratta di superare la tentazione di prestare attenzione alla complessità di questo tempo in maniera semplicemente reattiva, per assumere la responsabilità di riconsiderare le attività pastorali e il funzionamento delle strutture ecclesiali alla luce del bene dei fedeli e dell’intera società. «Ogni cristiano e ogni comunità – scrive Papa Francesco – discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (EG 20).

Chiediamoci, dunque: quali sono i “luoghi” reali – gli organismi pastorali – in cui la partecipazione di tutti diventa effettiva e favorisce un autentico discernimento? Possiamo dire che siano tali, ad esempio, i nostri Consigli pastorali?

 

  1. Annunciare

Dietro la parola “annuncio” non stentiamo a intravedere l’impegno di costante evangelizzazione che ha scandito i passi della nostra Chiesa nel dopo Concilio: dal suo binomio con la promozione umana a quello con la liturgia e quindi con la carità, passando per il rinnovamento della catechesi e dei percorsi di iniziazione e di educazione alla fede cristiana.

Tutto ciò continua a costituire la ricchezza della nostra storia, pur con i limiti e le fatiche di cui facciamo esperienza nella nostra pastorale. Oggi il nostro annuncio riceve un ulteriore impulso dalla testimonianza di Papa Francesco: l’affetto e l’attenzione di cui la gente lo circonda esprime un bisogno diffuso di parole e di gesti che sappiano indirizzare lo sguardo e i desideri a Dio. In fondo, la nostra stagione ci consegna nuove opportunità proprio per l’annuncio, ma – in un certo senso – le condiziona a una forma e a uno stile testimoniali: non è più il tempo di chi parla per parlare… L’autenticità con cui si sta nella compagnia degli uomini – quindi il nostro vivere in prima persona il Vangelo – ne dice la credibilità. Del resto, non è forse stato così fin dall’inizio dell’esperienza cristiana? «Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale – sono ancora parole dell’Evangelii gaudium – tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a scoprirlo, ci si convince che proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno…» (EG 265).

E, allora, domandiamoci: quale immagine di Dio comunichiamo con il nostro annuncio e con la nostra testimonianza? Sappiamo farci compagni di viaggio, capaci di esprimere i segni di un’umanità riconciliata, che sa vivere in pace, nella fraternità, nella giustizia, nel rispetto e nella promozione dignità di ciascuno?

 

 

  1. Abitare

La forza che caratterizza il cattolicesimo italiano e lo distingue rispetto a qualunque altro Paese europeo passa dalla presenza capillare della Chiesa sul territorio. Pensiamo, a questo riguardo, alla realtà delle nostre parrocchie, dove si manifesta una prossimità fattiva e salutare alla città e nella città degli uomini: basterebbe anche solamente considerare quante istituzioni, quante strutture ed enti, quante opere assistenziali ed educative sono sorte dalla fecondità della comunità cristiana in risposta a precise necessità e con questo aperte a tutti.

Le trasformazioni sociali e culturali di questi anni ci portano a confrontarci certamente con un tessuto più sfilacciato e composito, con un contesto pluralista al quale, per un verso l’immigrazione, per l’altro il diffondersi di una diversità di modelli e stili di vita, hanno dato un apporto sostanziale. Costituirebbe un oggettivo impoverimento se tali trasformazioni – unite alla carenza di vocazioni e alla difficoltà a misurarci con i nuovi scenari – vedessero venir meno il nostro contributo di ispirazione, di testimonianza e di azione: ne patirebbero il vivere civile e la sua laicità, il bene comune, la pace sociale e la qualità della convivenza democratica. A farne le spese – lo sappiamo bene – sarebbero, innanzitutto, i poveri. In questo quadro, l’appello di Papa Francesco per «una Chiesa povera per i poveri» (EG 198) esprime una scelta di campo dal valore ad un tempo teologico, antropologico ed ecclesiologico. In altre parole, racchiude una precisa indicazione programmatica.

Chiediamoci: nelle metamorfosi del presente, sappiamo conservare l’orizzonte e la freschezza di una Chiesa di popolo, che investe sulla formazione e promuove l’impegno sociale e politico del laicato? Alziamo la voce per una gestione sanitaria inclusiva, per un sostegno effettivo alle famiglie, per affrontare insieme l’inverno demografico fotografato solo qualche giorno fa dall’Istat, che documenta come dall’unità d’Italia in poi non ci sia mai stato un analogo record negativo assoluto?

 

  1. Educare

I Convegni ecclesiali collocati non a caso a metà decennio sono occasione anche per rilanciare il tema di fondo, ricentrando l’attenzione su una scelta condivisa, in risposta a bisogni che travalicano ampiamente i confini ecclesiali. Il discorso oggi tocca direttamente il tema dell’educazione, che non stentiamo a cogliere trasversale rispetto a tutti gli altri. Conosciamo quanto sia diffusa la tendenza ad affrancarsi da qualsiasi tradizione e dai valori che veicola. Si colloca a questo livello la questione antropologica per eccellenza, che coinvolge la stessa nozione di vita umana, l’apprezzamento e la valorizzazione della differenza sessuale, la configurazione della famiglia e il senso del generare, il rapporto tra le generazioni, la risorsa costituita dalla scuola, la sfida costituita dall’ambiente della comunicazione digitale, la costruzione della comunità all’insegna del diritto e della legalità. Come osserva la Traccia, il primato della relazione, il recupero del ruolo fondamentale della coscienza e dell’interiorità nella costruzione dell’identità della persona, la necessità di ripensare i percorsi pedagogici e la stessa formazione degli adulti sono priorità ineludibili. Nel contempo, sappiamo pure che su questi fronti come comunità ecclesiale non partiamo da zero, anche se occorrerà senz’altro ricostruire grammatiche educative più rispondenti e spenderci per immaginare nuove alleanze educative, che consentano di unire le forze. In particolare, osserva il Papa, «si rende necessaria un’educazione che insegni a pensare criticamente e che offra un percorso di maturazione nei valori» (EG 106).

E se le domande in questo ambito sono molteplici, chiediamoci innanzitutto: come possiamo promuovere relazioni solide e continuative all’insegna della gratuità e dell’accoglienza? Come non smettere di educarci e di educare alla legalità? Anche qui, non mancano recenti e autorevoli rilievi che dicono la diffusa crisi morale nella quale il Paese si travaglia.

 

 

 

  1. Trasfigurare

La via del trasfigurare porta con sé la questione del senso della festa e della domenica, quali spazi di vera umanità, nei quali la persona ritrova se stessa nel quadro più ampio della storia della salvezza e riscopre la fecondità di rapporti familiari e sociali. Ma, non scordiamolo, rivela la propria autenticità quando ci porta a contemplare il volto di Cristo nel volto dell’uomo, fino a cogliere la responsabilità a cui ci consegna: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). «Sul Vangelo degli emarginati si scopre e si rivela la nostra credibilità», sottolineava ieri Papa Francesco nella Messa con i nuovi Cardinali. Allora la Chiesa sarà veramente come la sogna Papa Francesco, «il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG 114).

Le nostre comunità, dunque, sono capaci di momenti di contemplazione? E come possiamo esplicitare maggiormente su un piano pastorale la vita sacramentale, così che essa sia legata alla trasformazione della vita personale e pubblica nel segno dell’inclusione e, quindi, della carità?

 

[1] Piero Schiavazzi (cfr O.P. 11/2014)

[2] Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 319.

[3] Documento preparatorio della 45ª Settimana sociale, n. 2.

 

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