Giovenale e il Teatro del suo Tempo

Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino in una famiglia benestante, che gli permise di ricevere un’educazione di prim’ordine. La sua data di nascita è incerta. Tuttavia, nella prima satira – risalente al 100 d. C. –, dice di sé di non essere più iuvenis, ossia avrà avuto circa 40/45 anni, ragion per la quale si può ritenere che sia nato tra il 50 e il 60 d. C.. Avvocato di non particolare fortuna, decise, appunto già maturo, di dedicarsi alla poesia satirica. Ma, legandosi ai potenti di turno, di fatto fu loro succube, privo di autentica libertà politica e anche di vera autonomia economica. Dal che, secondo gli esegeti, discenderebbe la visione malinconicamente pessimistica della vita che innerva i suoi componimenti. Sicuramente visse fino al 127 d. C., come si ricava da alcuni riferimenti interni della sua opera.

Opera, che è costituita da sedici satire (l’ultima delle quali incompleta), articolate, forse dall’autore stesso, in cinque libri e pubblicate dopo la morte di Domiziano, quando il clima politico, con Nerva e Traiano, sembrava più disteso e favorevole alla libertà artistica.

Cos’è una satira? Per quel che ci è dato sapere, il primo ad utilizzare il termine satura, fu Orazio; invece, nei frammenti di Lucilio questo genere letterario è definito schedium, vale a dire “versi improvvisati”. Secondo Varrone, il termine sarebbe da ricondurre a satura lanx, espressione che nella Roma arcaica indicava un piatto, carico di primizie, da offrire agli dei durante le cerimonie religiose. Dunque, la satura lanx era una specie di insalata mista. La caratteristica di misto di ingredienti passò poi a indicare un tipo di procedimento giuridico, detto lex per saturam, una sorta di “testo unico ante litteram”, nel quale venivano incorporati in un unico progetto di legge provvedimenti diversi.

Tito Livio (Ab urbe condita, VII,2) ci riferisce, a dire il vero piuttosto enigmaticamente (e probabilmente in maniera non detto tutto esatta) l’esistenza, nel III sec. a. C., di un genere teatrale chiamato satura, in cui si mescolavano insieme versi, musiche, e danze mimiche (che Livio definisce impletas modis saturas ovvero “satire piene di ritmo”). Come detto, la laconica testimonianza liviana non trova accordo tra gli studiosi, anche sulla scorta del fatto che non possediamo alcuna fonte antica in grado di collegare gli spettacoli drammatici citati dallo storico e la satira poetica. Anzi, è probabile che Livio, sull’esempio dato da Aristotele che nella Poetica abbozza uno schizzo storico relativo alla tragedia greca, abbia tentato di tracciare, senza il supporto di attestazioni dirette, una sorta di storia della commedia latina, con la ricostruzione di una fase intermedia (appunto quella della satura drammatica) tra i fescennini e il dramma di derivazione attica.

In ogni caso, a dar credito a Quintiliano, satura tota nostra est, cioè essa sarebbe un’invenzione letteraria esclusivamente latina. Sicuramente scrissero satire Ennio, Pacuvio, Lucilio (che fu l’inventor generis), Varrone, Orazio, Persio, e appunto Giovenale, col quale si concluse la parabola del genere satirico.

Il Nostro, dinnanzi all’inarrestabile dilagare del vizio (nelle sue satire affronta vari argomenti: la depravazione degli omosessuali; i vizi delle donne; l’infelice condizione degli avvocati; la vanità dei desideri umani; l’inutile sfarzo dei banchetti; la cupidigia dei cacciatori di eredità; i frodatori e gli imbroglioni; l’educazione dei figli; il fanatismo religioso), e indignato per il crollo degli antiqui mores, trovò nella satira il genere più adatto ad esprimere rabbia e disgusto. A differenza di Persio, che ai vizi opponeva rimedi di precettistica filosofica, Giovenale rinuncia all’esortazione morale: egli, infatti, non crede che la letteratura possa influire sul comportamento umano. Per questa sfiducia nell’agire umano e per la convinzione che la realtà sia immutabile, Giovenale limita la sua satira ad una denuncia astiosa e corrosiva della realtà del suo tempo. Il che, si traduce in ricche e dettagliate descrizioni della vita quotidiana della cosmopolita capitale dell’Impero. Del quale lo spettacolo teatrale era un perno fondamentale.

Il panorama degli spettacoli dell’età imperiale comprende un complesso di manifestazioni molto eterogeneo e articolato, che va al di là della sfera teatrale strettamente intesa, e sovente include anche una componente agonistica (corse dei cavalli, lotte di gladiatori, venationes).

Fin dai primi decenni del nuovo corso politico, la tragedia e la commedia classica circolavano solo in ambienti ristretti e colti, molto probabilmente nemmeno nella forma di messinscena, bensì in quella di letture di brani. Infatti, sul versante della messinscena, la presenza di tragedie pare lentamente andare sparendo, tanto che fino a tutto il primo secolo d. C. sono testimoniate nelle fonti letterarie pochissime rappresentazioni di tragedie. Oltre a riprese di drammi di autori classici, quale Accio, Ennio, Pacuvio e Nevio, conosciamo i nomi con alcuni titoli di autori contemporanei: Curiazio Materno, autore del dramma perduto Nerone; Pomponio Secondo, autore di tragedie, pure perdute, quali Atreus, Armorum iudicium e di una praetexta dal titolo Aeneas.

Dunque, in epoca imperiale, la tragedia viene conosciuta e praticata come letteratura drammatica, non come rappresentazione scenica. L’unica forma di esecuzione parateatrale, destinata comunque ad un pubblico colto, era la declamazione di singole scene ad opera di un tragicus cantor. Si trattava di qualcosa di simile ad un moderno recital, in cui un attore o un cantante eseguiva, senza un particolare apparato scenico, i pezzi più popolari del suo repertorio. Del resto, in quell’epoca, era invalso l’uso di adattare per la scena materiale non strettamente drammaturgico, cioè testi (leggende dell’epopea troiana e romana, o soggetti letterari dei poeti augustei), solitamente destinati alla lettura privata o alla declamazione in pubblico (per esempio, Tacito racconta l’entusiasmo con cui Virgilio era accolto nei teatri dove avveniva la lettura dei suoi versi ed il calore con cui era omaggiato). Il successo di questo tipo di spettacolarità fu certamente agevolato dal progressivo diffondersi di forme rappresentative piuttosto varie, che soppiantarono l’allestimento dei drammi classici nella loro interezza, secondo una prassi che permetteva di riprodurre episodi di tragedie svincolati dalla propria più ampia cornice narrativa.

Se i recital erano intesi per assecondare i capricci di un pubblico colto, facendogli ascoltare brani illustri e familiari, un’altra forma di spettacolo, il pantomimo, si proponeva di far rivivere scenicamente e visivamente le trame del teatro antico. In questo genere di rappresentazione, affidata di regola ad un solo interprete (affiancato da un coro che narrava la storia), che sosteneva diverse parti indossando la maschera ed esprimendosi con movimenti del corpo e delle mani accompagnati dalla musica, i soggetti erano spesso presi da quelli del repertorio tragico (ma esisteva anche un pantomimo comico-satirico). Infatti, si usava l’espressione saltare tragoediam, per designare quel particolare modo di far rivivere, senza parole, le storie dei grandi personaggi del teatro tragico, per lo più di ascendenza mitologica. Possiamo ben dire che, dopo il tramonto letterario e scenico della tragedia, sarà proprio il pantomimo a tener viva la conoscenza del patrimonio di miti e leggende tradizionali.

Giovenale riferisce, ovviamente nel suo stile duramente polemico, alcuni dettagli di questo genere teatrale. Grazie all’Aquinate sappiamo che alla scrittura dei relativi libretti scenici si dedicarono anche autori importanti come Lucano, di cui si ricordano alcuni titoli (Atreo e Tieste, Ajax, Niobe, Hercules Furens), e Stazio, che, per sbarcare il lunario, scrisse un’Agave per il celebre pantomimo Paride, oltre a dare pubbliche recite dei suoi componimenti.

Nella VII satira (vv. 82-87), Giovenale scrive: «Tutti corrono a udire la bella voce del poeta e la poesia della Tebaide, così cara al pubblico quando, per la gioia della città, Stazio ha fissato il giorno della dizione: tanta è la dolcezza con la quale egli ha avvinto gli animi e tanto il piacere con cui lo si ascolta. Ma quando coi suoi versi ha infrante persino le sedie, se non vuole morire di fame, deve vendere a Paride la sua Agave».

L’attore Paride di cui parla Giovenale aveva raggiunto, come spesso accadeva ai divi di pantomimo, un grande successo, al punto da divenire l’amante della moglie di Domiziano, che per questo lo fece giustiziare. Giovenale testimonia l’abbandono scomposto e lascivo delle fans, incluse le nobili matrone, alle suggestioni erotiche della danza. Infatti, nella VI satira (vv. 63 e ss.) ci racconta: «Quando Batillo (altro celebre pantomimo, nda) interpreta la pantomima di Leda con la flessuosità sensuale del corpo, Tuccia non trattiene più la vescica; Apula emette improvvisamente, come quando fa l’amore, un gemito lungo e lamentoso; Timele spalanca gli occhi».

L’eccessiva popolarità di questi professionisti obbligò in vari casi gli imperatori a prendere severi provvedimenti “disciplinari” nei loro confronti. Il gradimento delle masse per la fabula saltica è confermato da Seneca che, anticipando il giudizio degli scrittori cristiani, la considera, con aristocratico disprezzo, come l’espressione di gusti grossolani, incompatibili con la ricerca della virtù.

Anche la commedia, in epoca imperiale, continua ad essere amata e conosciuta soltanto attraverso la sua forma letteraria. Non a caso, Plinio dice «comoedias audio et specto mimos». In altre parole, le commedie vengono ascoltate leggere, mentre ciò che si va a vedere sono i mimi. Tuttavia, c’è rimasto il nome di un autore del II sec. d. C., Pomponius Bassulus, che, a giudicare da un’iscrizione sepolcrale redatta da lui stesso, tradusse opere di Menandro e si cimentò nella stesura di commedie.

Il genere teatrale che ha il maggiore successo in età imperiale è il mimo, tipo di spettacolo destinato al grosso pubblico, caratterizzato da un’estrema versatilità. Tant’è che all’interno del genere, vi erano anche mimi destinati ad élite più colte. Basti fare riferimento alla decima satira oraziana, in cui il poeta rifiuta di considerare poesia i mimi di Laberio, e si paragona ad un’attrice dei mimi, Arbuscula, che, fischiata dal grosso pubblico, diceva di essere fiera del plauso dei cavalieri; anche Cicerone ci fa sapere che quest’attrice era la beniamina di un pubblico più raffinato.

Nel mimo, l’espressione non si restringe al gesto come nel pantomimo, ma comprende sia la parola che la danza ed il canto; l’intonazione è prevalentemente comica, anche se non esclude l’inserimento di battute sentenziose in cui si riflette una moralità forse conformistica; c’è una grande varietà di temi, che va dalla ripresa di scene di carattere mitologico ad argomenti di attualità e di polemica anticristiana; gli attori, che recitano tutti senza maschere, sono sia maschi che femmine, queste ultime spesso abbondantemente scollacciate. È possibile ipotizzare che la grande fortuna scenica di questo genere può forse derivare dalla possibilità di allestimenti poco costosi e semplici, e dalla connotazione di un maggiore realismo imitativo rispetto alle convenzioni del teatro classico.

Nella XII satira (vv. 111 e ss.), Giovenale cita un mimografo, del quale purtroppo non resta neppure un verso. Scrive l’Aquinate: «Dato fondo al tuo patrimonio, tu, Damasippo, hai venduto alla scena la tua voce per recitare il tracotante Spettro di Catullo. E anche meglio ha recitato il Laureolo Lèntulo, un giovane, a parer mio, degno d’essere veramente messo in croce». Questo riferimento ha dato origine ad un’ipotesi molto suggestiva.

Valerius Catullus fu mimografo, come attestano sia Giovenale, sia il suo scoliaste. Anche Marziale ne lodò la fama di eloquente. Visse all’epoca di Caligola. Egli avrebbe scritto con certezza due mimi, Phasma e Laureolus. Quest’ultimo tenne cartellone per quasi due secoli e forse anche oltre, negli anfiteatri dell’impero: vide la prima sotto Caligola e fu conosciuto da Tertulliano e dai suoi lettori.

Che vicende venivano raccontate in questo mimo? Le poche notizie che ci rimangono, forse frutto anche di continui rimaneggiamenti scenici, ci dicono che era uno schiavo, che nella fuga trascina con sé il suo padrone, cui alla fine, probabilmente darà la morte. Forse i fatti narrati hanno addentellati storici, e Laureolo sarà stato effettivamente il nome di un brigante che si era messo a capo di una masnada di individui della stessa risma. Incendiario e scannatore insieme, riesce a sfuggire per molto tempo alla giustizia sia mediante abili camuffamenti, sia mediante spericolate acrobazie degne di un saltatore e di un acclamato saltimbanco.

La circostanza, riferita da Giovenale, per la quale Laureolo muoia in croce, induce ad una riflessione. Infatti, le modalità esecutive della crocifissione stimolavano da un lato i mimografi a cimentarsi con un argomento “tabù” (e come tale capace di suscitare le pruderie di un pubblico eterogeneo e popolare), e dall’altro invogliava gli attori a mettere in gioco tutte le loro possibilità “artistiche” e le doti fisiche in performance molto dure e talvolta estreme. Il che suscitava entusiasmi e deliri tra gli spettatori, specie quando l’attore veniva all’ultimo momento sostituito da un vero condannato, e al sangue finto, fino a quel punto sparso sulla scena, faceva seguito lo spargimento di sangue autentico (cosa che avvenne durante l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, come ci racconta Marziale).

L’ipotesi, formulata da più studiosi, è che nei mimi Laureolus e Phasma Catullo abbia inteso fare la parodia, rispettivamente, di Gesù suppliziato in croce, e poi comparso ai suoi discepoli dopo la Resurrezione. Laureolo, infatti, è “l’uomo coronato di una piccola corona di alloro”, ed era a capo di una banda di briganti, così come Gesù era il “re coronato di spine” dai soldati di Pilato, ed era alla guida di un gruppo di apostoli. Un indizio viene ancora da Giovenale (XIII, 103-105): «Multi committunt eadem diverso crimina fato: Ille crucem sceleris pretium, tulit hic diadema». Il Phasma a sua volta, metterebbe in burla l’apparizione di Gesù ai discepoli, dopo la resurrezione. Insomma, basandosi su notizie tramandate oralmente da persone poco colte, da poco convertite alla fede cristiana, Catullo ideò i suoi mimi, con l’intenzione di denigrare la nuova religione che si andava diffondendo a Roma – questa circostanza, unitamente a quella per cui la cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio fa la parodia di alcuni brani del Vangelo di Marco, obbligherebbe a rivedere la datazione dell’opera marciana – che, per quello che predicava, poteva costituire un pericoloso motivo di eversione al potere imperiale.

In altre parole, dal racconto di Giovenale, possiamo argomentare che Catullo aveva appreso le notizie riguardanti la morte e la resurrezione di Gesù da gente del popolo, le aveva trasfuse nel suo Laureolus e nel Phasma, con l’intento di parodiare un culto, che ai suoi occhi di romano del I sec., doveva apparire più bizzarro che pericoloso.

Infine, di grande successo erano gli spettacoli nel circo, cioè, in buona sostanza, le corse dei carri. Oltre agli spettacoli a teatro e al circo, erano di grande presa sul pubblico gli spettacoli in anfiteatro: cacce alle belve (venationes), esecuzione capitali di condannati, combattimenti di gladiatori (munera gladiatoria), e più raramente le battaglie navali (naumachiae). Questa tipologia di spettacoli godette di grande popolarità almeno fino al IV sec., quando iniziò un lento ma inesorabile declino, solo in parte attribuibile all’influsso del cristianesimo. Infatti, a far decadere le fortune degli spettacoli in anfiteatro furono per lo più ragioni di ordine economico e il mutato atteggiamento delle autorità pubbliche, soprattutto verso le lotte gladiatorie, che scomparvero completamente dalle scene intorno alla metà del V secolo.

Celebre è l’espressione, naturalmente di tono sprezzante e sarcastico, di Giovenale “panem et circenses” (satira X, v. 81; ma vi accenna anche nella satira VIII al verso 117), con la quale egli stigmatizzava da un lato il comportamento del potere imperiale di “distrarre” il popolo, dandogli quel tanto che bastava per i bisogni materiali e allettandolo con i giochi del circo, e dall’altro la dabbenaggine del popolo, che si accontentava di vedere i gladiatori combattere e scannarsi nell’arena.

Di solito si è portati ad immaginare i combattimenti come qualcosa di estremamente sanguinoso e dall’esito sempre mortale; ma la realtà dovette essere sicuramente diversa, visti i costi sostenuti per mantenere e allenare i morituri, e ancor più per i costi sostenuti dagli editores per offrirli al pubblico. È perciò probabile ritenere che la loro morte nell’arena non fosse così frequente, eccezione fatta per quei combattimenti denominati munera sine missione vale a dire all’“ultimo sangue”, la folla che accorreva per vedere i propri beniamini ne voleva poter ammirare la bravura e la prestanza fisica. Del resto, rimangono molti mosaici rappresentanti le pugnae (combattimenti). In essi compaiono sovente i soprannomi dei gladiatori: se essi morivano continuamente, non ci sarebbe stata ragione perché il pubblico si affezionasse loro tanto da dargli dei nomignoli. E ancora, è evidente anche che la loro prestanza fisica inoltre non sfuggiva alle nobildonne romane, tanto da far parlare di suspiria puellarum.

Un episodio che ben sintetizza il fanatismo dei sostenitori verso i propri idoli è dato dalla rissa che scoppiò nel 59 a. C. nell’anfiteatro di Pompei tra “tifosi” locali e nocerini. Gli incidenti iniziati durante un combattimento tra gladiatori, provocarono morti e feriti, cosicché l’anfiteatro fu “squalificato” per dieci anni.

Probabilmente, lo spirito di Giovenale vagherebbe oggi tra noi con lo stesso disincanto astioso e pungente, nel vedere il popolo entusiasmarsi per attori e storie di modestissima portata artistica, nell’apprendere cosa succede spesso nei nostri stadi, o nell’assistere ai tristi conciliaboli parapolitici della nostra televisione…

– Vincenzo Ruggiero Perrino

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