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Relazioni comunitarie e processi educativi – Istruzione per celebrazione dei Passaggi dell’Oasi Mariana Betania (Alvito, 29 marzo 2025)

RELAZIONI COMUNITARIE E PROCESSI EDUCATIVI

Istruzione per la celebrazione dei Passaggi dell’Oasi Mariana Betania
Alvito-Parr. S. Simeone, 29 marzo 2025

 

Cari amici dell’Osi, carissimi don Alberto e don Marcello,

penso di condividere una forma di ‘istruzione’ che serva da cantiere aperto, quale contributo del Vescovo al vostro percorso associativo nell’Oasi Mariana Betania, nel giorno in cui celebriamo il rito dei “Passaggi” a conferma del processo formativo dei membri. Vi ringrazio.

Il racconto parabolico di Lc 15, 1-3.11-32 offre l’opportunità straordinaria di attenzionare e sempre rigenerare il percorso associativo dell’Oasi. Pertanto, provo a rileggere il vostro progetto formativo alla luce del racconto di san Luca, chiedendovi scusa in anticipo se, forse, il mio intervento proverà a discostarsi da una lettura ripetitiva e stantia della parabola, a mio parere insufficiente rispetto alla ricchezza e attualità del suo messaggio. La creatività del testo biblico è anche legato alla nostra capacità di immaginazione con cui leggere tra le righe, senza mai discostarsi dalla verità. La domanda di fondo è: quali paradigmi relazionali possiamo considerare nella parabola raccontata da Gesù? Il contesto è importante: Gesù risponde alla mormorazione e alla critica di scribi e farisei, che ritenevano di essere le migliori guide e padri, educatori presuntuosi della religiosità del popolo. Quella di oggi è la terza parabola con cui Gesù reagisce alle critiche dei benpensanti. Se negli anni abbiamo modificato l’ipotetico “titolo” da attribuire al testo, evidentemente abbiamo spostato il baricentro del racconto: da “Parabola del figlio prodigo” a “Parabola del padre misericordioso”. Possiamo immaginare di modificare ancora il baricentro dei significati e osare come titolo: “Parabola di due padri, due fratelli e due figli”? La parabola parla di una famiglia ordinaria che al tempo di Gesù poteva costituire un caso concreto, specifico. Stiamo attenti a non applicare l’interpretazione catechetica pret-a-porter, piuttosto scontata e ripetitiva, senza nulla togliere al suo pur apprezzabile valore.

Un uomo e due figli

L’inizio del racconto sorprende non poco, e forse indica già un alert al quale non sottrarsi: “Un uomo aveva due figli”. Non si parla di un padre, ma di un uomo (νθρωπός). E’ già indizio di un certo gelo nelle relazioni domestiche, come quando in famiglia un figlio non chiama “papà” suo padre, ma con il suo nome per dimostrare un presa di distanza. Nella parabola si tratterebbe forse di un uomo che, pur avendo generato, fa fatica a diventare davvero ‘padre’. L’inizio del racconto sembra contrassegnato da un silenzio assordante, un mutismo rotto improvvisamente dall’intervento a gamba tesa da parte del figlio più giovane. Il tratto che più sorprende di questa famiglia è che il padre e i due figli, pur vivendo nella stessa abitazione, probabilmente ognuno di loro ha sempre pensato solo a se stesso. Se così fosse, si conferma il sospetto che quest’uomo fosse in grande difficoltà come padre e come educatore dei figli. Ognuno dei tre si ritrova “dissociato” dall’altro: il figlio minore si dissocia dal padre decidendo di andar via. Il padre non fa alcuna resistenza, e sembra dissociato dalla vita del figlio. Forse era anche contento della fuoriuscita del giovane da casa perchè era solo motivo preoccupazione e di disturbo, dava dei problemi così come li darà fuori con un comportamento da dissoluto, sciupando tutte le sue risorse, soprattutto la sua dignità di persona. Il comportamento che assumerà fuori di casa non potrà che confermare che si trattasse di un figlio scapestrato. E quando il figlio più giovane deciderà di tornare a casa, lo farà solo per convenienza e per interesse di stomaco, non per affetto sincero verso suo padre, La formula del rientro imparate a memoria era solo captatio benevolentiae. In verità, ritorna in cerca di un datore di lavoro, dal quale aspettarsi almeno il salario minimo per sopravvivere.

Il figlio maggiore all’inizio del racconto è completamente assente, non se ne parla e non parla. Solo in seguito al rientro del fratello minore, si dissocia apertamente sia dal fratello che dal padre. Al padre rimprovera la differenza di trattamento. Gli rinfaccia soprattutto la colpa di averlo comodamente trattato più come un esecutore dei suoi comandi, un servo obbediente, che come un figlio. Il figlio più grande d’età trova il coraggio di dissociarsi e ribellarsi al padre. Il figlio minore con il suo silenzio si dissocia dalle critiche del fratello maggiore, non reagisce, non gli dà ascolto e non gli risponde fino a snobbarlo. Non gli importa proprio nulla del disagio del fratello maggiore. Anche con questo figlio il padre non riesce nel ruolo educativo. Si ritrova drammaticamente solo.

Un padre e due fratelli

Nella seconda parte avanzata del racconto, appare sulla scena un comportamento nuovo da parte del padre, una figura completamente diversa. Se nella prima possiamo riconoscere i fallimenti di una paternità educativa disorientata e di una fraternità in frantumi, nella seconda parte riconosciamo una paternità inaspettata, capace di ricostruire una fraternità riconciliata tra i due figli e dei figli con lui. E’ adesso che si intravede la paternità di Dio, che educa alla relazioni fraterne guarendole, rimarginando le ferite. La situazione familiare sembra ricomporsi: la diversa ripartenza della vita familiare è provocata dal diverso comportamento del padre: pensiamo l’abbraccio verso il figlio minore e la conversazione verso il figlio maggiore con parole e profili educativi completamente inaspettati. Il clima affettivo sta davvero cominciando a cambiare. Il figlio più giovane, che inizialmente aveva deciso di ritornare come presso un ufficio di collocamento, senza alcuna vera nostalgia del padre, incontra una persona che gli corre incontro, lo bacia e lo abbraccia, Ai servi parlerà di lui come di un ‘figlio’, finalmente: Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Questo figlio, sentendosi cercato e non più sopportato e rifiutato per i suoi difetti e vizi, riesce finalmente a sentire davvero l’amore del padre: esplode il reciproco abbraccio. Troviamo un padre diverso, cambiato: è qui, solo ora, che io vedo incarnata la rivelazione di un ‘Altro’ padre. Vedo qui rivelarsi un’altra paternità educativa, la paternità di Dio come paradigma rigenerativo delle relazioni fraterne. La novità di questa paternità è che Dio-Padre si prende cura con lo stesso amore, senza alcuna disparità di comportamento, come purtroppo a volte succede nelle nostre relazioni, verso i due fratelli. Solo ora la parabola propone un’alternativa alla paternità “sbagliata”: i due figli riscoprono il padre e si riscoprono fratelli, perché amati entrambi con uguale intensità. L’ amore del padre provoca anche i due fratelli a riconciliarsi e a ricomporre i loro dissidi, gelosie, frustrazioni, lagnanze. Per loro, il padre ha preparato due banchetti: la festa del reciproco perdono per il più giovane, e il banchetto della reciprocità gratuita per il figlio maggiore (Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo). La parabola non offre una conclusione esplicita. Ma dal percorso così intrigante del racconto, mi piace immaginare che i due fratelli insieme con il padre, in una posizione fuori campo, non alla ribalta della scena ma dietro le quinte, si saranno definitivamente abbracciati e pienamente ritrovati. E’ la grazia delle relazioni guarite e riconciliate.

Nostalgia di casa, profumo di paternità

La parabola passa a noi la partita da giocare, quella più difficile: la qualità delle nostre relazioni. Come volgere al meglio i diversi livelli, verticali e orizzontali, delle relazioni comunitarie? Ogni forma di aggregazione deve imparare a tessere la trama di relazioni guarite dal virus del narcisismo, dell’autoreferenzialità. I personaggi della parabola lucana si scoprono burnout rispetto alla complicità di relazioni propositive e positive. Non nascondiamoci dietro un dito: nell’idolatria dell’Io, la relazione cessa di essere un luogo di crescita, di gioia e di sviluppo. Diventa, al contrario, un luogo di sofferenza, confinamento e regressione. Anche il Papa nel suo Messaggio per la Quaresima chiede di uscire dall’autoreferenzialità, essere “tessitori di unità”. Percorrere la vita “senza calpestare o sopraffare l’altro”, non lasciando che nessuno “rimanga indietro o si senta escluso”. Si tratta di educare il cuore a riconoscere e a sanare “la tentazione di arroccarci nella nostra autoreferenzialità e di badare soltanto ai nostri bisogni”.

Del figlio dissoluto l’evangelista afferma: Ritornò in sé (Lc 15,19). E’ questa la chiave di volta: Solo se riusciamo a trovare l’istanza dell’altro dentro di noi ha senso “tornare in sé stessi”. Il figlio più giovane ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! È il senso più profondo dell’agostiniano redi in te ipsum. È in tale dinamica che il soggetto diventa capace di percepire positivamente il proprio limite quale occasione di incontro con l’altro, nonché segno visibile della continua aspirazione al proprio perfezionamento. Ritornare in sé apre alla comprensione del Sé: della propria interiorità, dignità, ispirazione, slanci e progetti di valore. La custodia del sé merita la cura di se stessi. Mentre la ricerca sfrenata dell’Io produce la tossicità dell’amor proprio. La Parola di Dio riconsegna a tutti noi il paradigma relazionale grazie all’appartenenza comunitaria non come u-topia, qualcosa di impossibile, ma come eu-topia, come buon-luogo, contesto e condizione di relazioni robuste. Solo la reciproca fiducia tesse la trama del Noi. Gli altri non sono il mio inferno: per J. P. Sartre nell’opera teatrale “A porte chiuse”, i diavoli sono gli uomini, che ci attorniano, ci toccano, che respirano la nostra stessa aria, che sfiorano la nostra carne, ma ben peggio, ci guardano e il loro forcone è lo sguardo. Con esso ci giudicano, ci spogliano delle certezze; mentono, sono in malafede, ci fanno sentire nudi. La pedagogia della Parola di Dio insegna che gli altri non sono il mio limite, piuttosto guariscono i miei limiti. Impareremo a camminare insieme come Pellegrini di speranza, e non come erranti disperati. Ed è proprio questa la discontinuità che ritroviamo tra l’inizio e la conclusione dii questa stupenda parabola. Grazie.

                                                                                               @ Gerardo Antonazzo