Reverendissimo Padre Abate, Dom Luca Fallica, osb
Eccellenza Reverendissima, Mons. Gerardo Antonazzo,
Distinte Autorità, Civili e Militari,
Reverendi Monaci,
Sacerdoti, Religiosi e Religiose,
Sorelle e fratelli nel Signore!
- Ci siamo radunati insieme per celebrare secondo il calendario proprio benedettino la Solennità di San Benedetto, Padre del monachesimo occidentale e massimo patrono di questa antica Abbazia come dell’Europa. Il ritmo delle stagioni ci dice anche che siamo entrati nella primavera, nel succedersi dei tempi che sono dono di Dio: questa comunità stessa ha vissuto un passaggio, con la successione recente di dom Luca Fallica come nuovo Abate, installatosi da pochi giorni, subentrando a dom Donato Ogliari, che ora guida la comunità benedettina di San Paolo fuori le Mura. A lui inviamo il saluto riconoscente e l’assicurazione della nostra preghiera per quanto ha operato in questo luogo, mentre siamo vicini al nuovo Padre di questa Abbazia certi che il Signore accompagnerà con il dono del Suo Spirito il suo servizio. Egli sta sperimentando, nell’obbedienza alla voce di Cristo e della Chiesa sua Sposa, un ulteriore uscita dalla sua terra, come il patriarca Abramo, perché è stato chiamato a lasciare la comunità di Dumenza e giungere in uno dei luoghi più significativi della storia di San Benedetto, per ravvivarne il ricordo e custodirne l’eredità. Questo luogo è stato testimone di molte pagine del vostro Ordine, ma anche della nostra Italia: ha vissuto tribolazioni, sofferenze e distruzioni, ma ogni volta ha sperimentato la fedeltà di Dio che non abbandona la sua eredità e ne rinnova il vigore dopo averla passata al crogiuolo della purificazione. Nella nostra Europa, quel continente di cui san Benedetto contribuì a tratteggiare l’identità attraverso l’opera dei suoi figli, continuano le distruzioni e i bombardamenti di cui furono testimoni anche le mura di questo Monastero: la storia ci insegna che si possono ricostruire le pietre e riedificare gli spazi, ma molto più lenta e delicata è l’opera di guarigione dei cuori feriti dalla violenza e dal sopruso. Affidiamo il nostro continente alla preghiera di tutti voi, affinché invochiate incessantemente lo Spirito Consolatore, perché giunga la pace e si riaprano spazi di riconciliazione e crescita comune. In questo modo ciascuno di voi sarà fedele alla promessa di benedizione che abbiamo ascoltato proclamare nel libro delle Genesi: “in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Essa è rivolta anzitutto ad Abramo e alla sua discendenza, ma riguarda anche noi che siamo figli di Abramo mediante la fede, e in modo speciale voi monaci benedettini, che seguendo le orme del vostro padre e fondatore avete scelto di lasciare le vostre certezze, le vostre case, le vostre famiglie, per seguire la voce di Dio ed affidarvi alla Sua parola di salvezza. In questo senso avete sperimentato una elezione, avendo udito la voce del Signore che vi chiamava e vi sceglieva. La parola rivolta ad Abramo però è una vocazione nella vocazione potremmo dire: la chiamata ad uscire da sé stessi e dai propri confini non è per una volta soltanto, ma si rinnova ogni giorno, perché per ogni uomo è costante la tentazione di ricostruire un proprio confine, nel quale non sempre trova spazio il Dio che ci ha creati. Analogamente la benedizione che il Signore ci promette non potrà mai essere intesa come un possesso personale o famigliare che di natura sua esclude gli altri: quanto ti è dato lo è affinché attraverso la tua testimonianza la benedizione raggiunga tutte le famiglie della terra. Ne è segno la storia stessa di San Benedetto e dei suoi figli: egli ha lasciato il mondo per rincorrere Cristo, afferrato da Lui, ma tutte le genti che lo hanno incontrato hanno bramato di dissetarsi della sua presenza e della sapienza che promanava dalle sue labbra e i monasteri sono divenuti luoghi in cui molti accorrevano per ritrovare la pace con Dio e con i fratelli, attraverso la partecipazione alla preghiera e il consiglio spirituale. Come dice San Benedetto in un passaggio del prologo alla Regola: “Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.”
- L’apostolo Paolo, nel brano della Lettera agli Efesini che è stata proclamata, ci ha richiamati alla lotta spirituale che dobbiamo essere pronti ad affrontare nella nostra adesione a Cristo: non vi è autentico discepolato che ne sia esente. Essa può certo riguardare le tentazioni esteriori, che toccano i nostri sensi carnali come fu per san Benedetto secondo quanto riferisce san Gregorio Magno nei Dialoghi e il pittore Luca Romano ha dipinto in una delle opere che sono conservate in questa Abbazia: essa non aveva di mira soltanto il peccato del santo, ma soprattutto la sua fuga dal Sacro Speco in cui egli stava cercando di rispondere alla voce di Dio. Più in generale però, almeno da come si può desumere dalla Regola, Benedetto è consapevole di come in tante dinamiche anche della vita religiosa sia nascosta l’insidia di cercare più se stessi che Dio: per questo egli facendo tesoro del monito paolino ad indossare l’armatura di Dio, indica ben dodici gradini della scala dell’umiltà: “fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli…”. Partendo dalle dimensioni più concrete, giunge a riflettere sull’obbedienza e sul non appartenersi più: la meta però non una ascesi senza Cristo, bensì una piena conformazione a Lui, che non può essere data soltanto per uno sforzo personale di volontà, ma da un dono di grazia a chi confida in Lui: “Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all’abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; in altre parole non più per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati”.
- Potremmo dire che l’esperienza di San Benedetto ha saputo percorrere un itinerario che dagli abissi della terra è giunto alla santa montagna, e in questa dinamica è stato capace di edificare dei luoghi che fossero riflesso in terra della Città di Dio, posti sulle cime dei monti, lampade che hanno fatto luce a quelli di casa, nonostante l’umile avvertimento che egli pone a conclusione della sua Regola: “ Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l’aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen”. La sua testimonianza ridesta noi tutti a sentirci pellegrini su questa terra: non nomadi che vagano senza sapere da dove provengono e dove vanno, ma cercatori di assoluto, che sanno di provenire dal grembo dell’amore di Dio e in cammino verso l’abbraccio del Padre celeste. A Lui il Figlio si rivolge nella grande preghiera che abbiamo ascoltato, tratta dal capitolo 17° del Vangelo di Giovanni. “Siano una sola cosa, come tu Padre sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Ravviviamo fratelli carissimi la gioia di appartenere ad un Dio così, che riversa il suo amore senza misura, che si mette in cerca dell’uomo smarrito e affaticato, preghiamo e lavoriamo ogni giorno, e nulla anteponiamo alla Sua dolce memoria e presenza. I benedettini di Montecassino furono amici ed interlocutori del monaco san Nilo da Rossano Calabro, che poi fondò il monastero di Grottaferrata alle porte di Roma, di cui si avvicina il millenario: la comune testimonianza del monachesimo orientale ed occidentale sia rafforzata nei nostri giorni, perché seppur con lingue e tradizioni differenti, comune salga la lode di Dio e il grido “dona la pace Signore, la tua pace”. Così sia.