ACCRESCERE, RAVVIVARE, CUSTODIRE
Omelia per il Giubileo diocesano degli educatori alla fede
Cassino-Chiesa Concattedrale, 5 ottobre 2025
Cari amici,
il cammino che abbiamo condiviso per varcare la soglia della chiesa giubilare della Concattedrale è abitato dal desiderio della casa di Dio. Pellegrini di speranza, cantiamo l’anelito struggente dell’incontro con il Signore: “Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme!” (Sal 122,1-2). Camminando abbiamo posto il segno chiaro di chi è sia seminatore sia mendicante. In entrambe le posizioni, la speranza cristiana si radica in questa rocciosa certezza: Dio non delude, perché non solo esaudisce ciò che noi chiediamo, ma va “oltre ogni desiderio e ogni merito” (Colletta). La speranza si lascia sorprendere dalla tenerezza con cui Dio agisce in modo sovrabbondante. Egli è sempre esagerato nel suo amore! Ma noi spesso non lo comprendiamo, né lo riconosciamo nelle tracce discrete del suo passaggio. Cosa ne abbiamo fatto della nostra fede?
Crescere nella fede
Non ci resta che supplicare: Accresci in noi la fede! Il Maestro poco prima aveva istruito i suoi uditori circa la necessità del perdono incondizionato verso coloro che sbagliano (Lc 17,1-4). Esigenza, questa, fortemente provocatoria, tale da destabilizzare i destinatari. Si riconosce in filigrana una comunità, più o meno come le nostre, nella quale fratelli e sorelle nella fede vivono conflitti inevitabili. Come gestirli? All’infinito perdono offerto da Dio deve corrispondere il perdono umano senza misura né calcolo né condizioni. Si comprende allora il fremito dei discepoli e la loro richiesta di aiuto, come di gente confusa e in difficoltà: Accresci in noi la fede. Gesù con la sua risposta lascia intendere che di fede ne sono addirittura sprovvisti. E da vero educatore propone un’immagine sorprendente per spiegare che una fede piccola quanto il granello di senape (Mc 4,31) può realizzare l’impossibile umano. Come nella vicenda umana, troppo umana di Abramo, il quale “credette, saldo nella speranza contro ogni speranza… Egli non vacillò nella fede (Rm 4,18-19). La fede rende possibile ogni buona speranza, perché “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Immaginiamo che siano i vostri figli a chiederlo, che siano i nostri ragazzi a chiederlo, o i tanti adulti smarriti e confusi. E’ un’invocazione che va raccolta e, in molti casi, deve essere suscitata, provocata. Ogni buon educatore della fede semina speranza nella vita di chiunque. Accrescere è far germogliare il seme spingendolo a diventare spiga, anzi messe abbondante. Accrescere è far maturare, sviluppare la fede verso una “misura alta della vita cristiana ordinaria” (San Giovanni Paolo II). Parliamo, dunque, della maturità cristiana, dell’età adulta della fede discepolare. La nostra è spesso fede infantile di persone adulte, che con Dio ragionano da sprovveduti. Una fede non educata grida l’assenteismo di chi non si è preso cura della salvezza altrui.
La lingua madre della fede
Bisogna sviluppare il dono ricevuto, perché non resti seme. Dalla lettera di san Paolo apprendiamo oggi che la fede al discepolo Timoteo gli è stata trasmessa dalla nonna e dalla mamma, ma ora tocca a lui ravvivare il dono ricevuto: “Mi ricordo della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te. Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio” (2Tim 1,5-6). “La trasmissione della fede si può fare soltanto “in dialetto”, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna. Poi verranno i catechisti a sviluppare questa prima trasmissione, con idee, con spiegazioni. Ma non dimenticatevi questo: si fa “in dialetto”, e se manca il dialetto, se a casa non si parla fra i genitori quella lingua dell’amore, la trasmissione non è tanto facile, non si potrà fare. Non dimenticatevi. Il vostro compito è trasmettere la fede ma farlo col dialetto dell’amore della vostra casa, della famiglia” (Papa Francesco, 7 gennaio 2018). Questo pensiero è ripreso anche da Papa Leone che per il Giubileo dei catechisti ha dichiarato: “Voi catechisti siete quei discepoli di Gesù, che ne diventano testimoni…Perciò i primi catechisti sono i nostri genitori, coloro che ci hanno parlato per primi e ci hanno insegnato a parlare. Come abbiamo imparato la nostra lingua madre, così l’annuncio della fede non può essere delegato ad altri, ma accade lì dove viviamo. Anzitutto nelle nostre case, attorno alla tavola: quando c’è una voce, un gesto, un volto che porta a Cristo, la famiglia sperimenta la bellezza del Vangelo. Tutti siamo stati educati a credere mediante la testimonianza di chi ha creduto prima di noi. Da bambini e da ragazzi, da giovani, poi da adulti e anche da anziani, i catechisti ci accompagnano nella fede condividendo un cammino costante. Questa dinamica coinvolge tutta la Chiesa” (Papa Leone, Omelia, 28 settembre 2025).
Tutti indispensabili, nessuno necessario
La responsabilità della trasmissione della fede coinvolge tutta la Chiesa! Lo richiama don Tonino Bello quando scrive: “Ricordati che l’assiduità liturgica nel tempio non ti riscatterà dalla latitanza missionaria sulla strada. Se dentro vi canta un grande amore per Gesù Cristo e vi date da fare per vivere il Vangelo, la gente si chiederà: Ma cosa si cela negli occhi così pieni di stupore di costoro?” (T. Bello, Servi inutili a tempo pieno). Tutti, tutti, tutti, gridava Papa Francesco. Per questo “tutti” abbiamo bisogno della parabola dei servi, Gesù invita a considerare inutili. Sembra una brutta botta! Pensiamo invece ad un famoso detto che recita: Siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile. Proviamo a ragionare al contrario. Siamo tutti indispensabili, ma nessuno è necessario. Immaginiamo che ogni persona abbia qualcosa di indispensabile. Tocca a noi capire cosa vi sia di indispensabile in ciascuno. E, allo stesso tempo, cerchiamo di rendere ogni attività così ben articolata da far sì che nessuno sia necessario. Siamo indispensabili secondo le belle peculiarità di ciascuno, ma non talmente necessari da essere insostituibili. Siamo piuttosto “servi inutili”. Gesù ci fa prendere coscienza che di fronte a Dio siamo solo servi; non siamo creditori nei suoi confronti, ma siamo sempre debitori, perché dobbiamo a Lui tutto, perché tutto è suo dono. “Non dobbiamo mai presentarci come chi crede di aver reso un servizio e di meritare una grande ricompensa. Questa è un’illusione che può nascere in tutti, anche nelle persone che lavorano molto al servizio del Signore, nella Chiesa. Dobbiamo, invece, essere consapevoli che, in realtà, non facciamo mai abbastanza per Dio. Dobbiamo dire, come ci suggerisce Gesù: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Questo è un atteggiamento di umiltà che ci mette veramente al nostro posto e permette al Signore di essere molto generoso con noi. Infatti, in un altro brano del Vangelo egli ci promette che «si cingerà le sue vesti, ci farà mettere a tavola e passerà a servirci» (cfr Lc 12,37). Cari amici, se faremo ogni giorno la volontà di Dio, con umiltà, senza pretendere nulla da Lui, sarà Gesù stesso a servirci, ad aiutarci, ad incoraggiarci, a donarci forza e serenità” (Benedetto XVI, 3 ottobre 2010). Non si può spingere a vantarsi davanti a Dio e davanti agli altri per il lavoro svolto. La gioia di trasmettere la fede è la migliore ricompensa per il servo, consapevole di aver fatto quanto doveva fare, evitando il monopolio o l’esclusività insostituibile del proprio servizio.
Cari genitori, formatori, catechisti, sacerdoti e accompagnatori della fede,
non lamentiamoci e non scoraggiamoci nelle difficoltà; nelle prove affida la tua povertà alla potenza di Dio. Pensiamo al Giappone del 1639 quando tutti i sacerdoti, allora stranieri, vennero cacciati dall’Impero del Sol Levante e il culto cattolico venne vietato. Ma quando nel 1854 il Giappone riaprì le porte ai missionari, questi ultimi, con loro grande sorpresa, ritrovarono comunità cristiane vissute in clandestinità per quasi due secoli, grazie alla presenza di catechisti e catechiste coraggiosi che tennero accesa la fiamma della fede, anche se nel nascondimento. Il cammino giubilare ravvivi in ciascuno la grazia della chiamata alla fede e la gioia incontenibile di trasmetterla: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo “(Ger 20,9). Caro amico, resta umile servitore, non padrone ma servo della fede degli altri (2Cor 1,34); collabora per favorire la loro gioia, non per soddisfare i tuoi bisogni di gratificazione; si felice della loro vita, non smettere mai di prenderti cura della tua fede. Ognuno ravvivi oggi la fiamma di quel fuoco d’amore per il Vangelo che nessuna tentazione dovrà mai spegnere.
+ Gerardo Antonazzo
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