Il “fantasma” di Gaetano Marsella e il settecento a Isola di Sora

 

Nel corso del Settecento, tanto il teatro dei professionisti, quanto quello dei non professionisti, si diffondono in maniera capillare e in modi e in contesti molto diversificati, tanto che la vita spettacolare di una città vive dell’intreccio di spettacoli sacri e profani, di usi popolari e fasti aristocratici, di professionisti di passaggio e cosiddetti “dilettanti”, che però dedicano al teatro ricerca costante, esperienza, gusto della sperimentazione, in un continuo mettersi alla prova.

La Commedia dell’Arte, uscita dal popolo e sollevatasi alle corti sul finire del Cinque e nel corso del Seicento, tornava ora al popolo, ossia alle fiere, alle baracche, agli spettacoli a cielo aperto, cristallizzandosi ormai come genere preciso, che veniva ad aggiungersi ai diversi altri generi indipendenti, come le commedie e i drammi d’autore, che formavano il repertorio di una compagnia.

Nei collegi dei gesuiti, gli spettacoli curati dagli alunni erano una consuetudine fin dalla metà del Cinquecento, ed erano considerati un settore importante dell’educazione. Gli spettacoli erano allestiti con cura, soprattutto per quel che concerneva la musica, la pantomima e una messinscena grandiosa. Il repertorio, in parte sotto l’influsso delle accademie, si identifica con il repertorio tragico francese: Corneille, Racine, Voltaire.

Con riguardo ai problemi della drammaturgia, le discussioni che la tragedia suscita agli inizi del Settecento, con le varie proposte programmatiche e i diversi tentativi di realizzazione, si collocano nell’ambito del movimento culturale dell’Arcadia. La causa della decadenza della tragedia veniva attribuita alla letteratura barocca, la quale aveva prediletto un nuovo genere di teatro, il melodramma, e aveva rovinato il «buon gusto» del pubblico. La società, di cui la tragedia settecentesca si faceva espressione, era tuttavia priva di reali conflitti politici e sociali; mancavano cioè le premesse concrete per una rinascita di questo genere destinato a rimanere chiuso nel puro ambito letterario. Sicché quasi tutte le opere non furono che esercitazioni velleitarie per élites di cultori, destinate a teatrini privati di corte o di collegi religiosi, ad un pubblico, quindi, socialmente limitato.

I maggiori teorici della riforma drammaturgica furono Ludovico Antonio Muratori e Pietro Calepio. Il Muratori affronta il problema della riforma del teatro nell’opera Della perfetta poesia italiana. Dopo aver criticato il melodramma che involgarisce il gusto del pubblico e ne corrompe la moralità, afferma che «può divenire il teatro una dilettevole scuola de’ buoni costumi e una soave cattedra di lezioni morali», se il poeta saprà ispirare l’amore della virtù e l’orrore del vizio. Devono pertanto essere banditi gli amori soverchi; occorre inoltre che il poeta tragico osservi le unità aristoteliche, che scelga i suoi argomenti dalla storia antica, che le opere siano scritte in versi (il Muratori propende per gli endecasillabi uniti ai settenari), e che i principi incoraggino la composizione di nuove tragedie, regolando anche la vita teatrale. Le critiche mosse dal Muratori, che nel trattato Della perfetta poesia invitava a restaurare l’«antica dignità» e a riprendere la tradizione quasi del tutto interrotta, non sono una voce isolata.  

Sul fronte della commedia, altrettanto vivo era il desiderio di una riforma, che eliminasse gli abusi in cui era caduta la letteratura del Seicento con la commedia ridicolosa e d’intreccio e con la Commedia dell’Arte. A dire del Muratori la commedia del Seicento consisteva tutta «in atti buffoneschi, e in isconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola». La posizione del Muratori è indicativa delle tendenze più diffuse nell’età arcadica: semplificazione degli intrecci complicati, abolizione delle maschere fisse dalla comicità stereotipata, abolizione dei colpi di scena, ritorno alla naturalezza della vita reale. Sono questi gli obiettivi principali che si propongono teorici e commediografi del Settecento con risultati, secondo i casi, più o meno adeguati alle intenzioni.

Il melodramma alla fine del Seicento si presentava agli occhi polemici dei contemporanei, non diversamente dalla tragedia e dalla commedia, come un genere decaduto dalla forma originaria e dal significato poetico e culturale che gli erano stati attribuiti dalla fiorentina Camerata dei Bardi. Esso appariva come un grande spettacolo, dove, venuta meno l’armonia tra poesia e musica, questa prevaleva sulla prima ridotta alla funzione di «libretto», di una traccia cioè che servisse agli autori della musica, della scenografia e dei balli, tutti elementi che costituivano parti integranti di questo genere teatrale: «io sto per dire, essersi la poesia vilmente posta in catene; e laddove la musica una volta era serva, e ministra di lei ora la poesia è serva della musica».

Sul fronte squisitamente scenico, se in epoca barocca era stato l’universo prospettico della scena, con le sue magie illusionistiche e meccaniche a focalizzare l’attenzione teorica e la sperimentazione pratica, permeando di sé l’immaginario letterario e artistico, nel Settecento la riflessione critica sembra prediligere la problematica dell’attore. L’arte dell’attore appare come il nodo cruciale della comunicazione estetica teatrale. Non a caso, è la funzione intermediaria che l’attore esplica fra l’autore (il poeta) e lo spettatore a colpire l’attenzione di chi scrive sul teatro e quindi persegue l’analisi di come avviene la trasmissione del testo letterario, di come si producono le reazioni del pubblico, di cosa in fin dei conti succede nel momento magico e irripetibile della comunicazione teatrale. Pur nell’estrema differenza di punti di vista, una sostanziale uniformità sta nel riconoscere un qualcosa di indicibile e ineffabile che si produce, quasi per reazione chimica, fra attore e spettatore nei momenti più alti e sublimi della rappresentazione.

Chi ha occasione di recarsi nella basilica romana di S. Maria Maggiore, noterà, tra le altre sepolture gentilizie, il sepolcro di Giulio Cesare Marsella, che di quella chiesa fu il canonico. Costui era nato ad Isola di Sora agli inizi del Seicento. Aveva studiato da medico, e, presi i voti, aveva scalato le gerarchie ecclesiastiche, fino a divenire cameriere segreto di Sua Santità Innocenzo X. Tuttavia, non aveva mai interrotto i contatti con il luogo di nascita, tant’è che a metà del Seicento faceva porre un’iscrizione innanzi al palazzo di famiglia nella cittadina ciociara. Morì nel 1681. Un suo discendente fu Gaetano.

Gaetano Marsella è un personaggio, che il pur completo Dizionario storico biografico del Lazio si limita a descrivere come «letterato […] autore del dramma in musica Il Pausania […] dedicato a Carlo di Borbone re delle Due Sicilie». In effetti, consultando i cataloghi delle biblioteche italiane è reperibile unicamente questo suo dramma per musica, dato alle stampe nel 1738, presso la stamperia di Stefano Abbate di Napoli, intitolato appunto Pausania (l’unica copia attualmente reperibile è conservata presso la Biblioteca dell’Abbazia di Casamari).

La storia raccontata in questo dramma, che si compone di tre atti, è la seguente. Pausania, che è un illustre capo dell’esercito greco, dopo aver riportato grandi vittorie contro il re persiano Serse, e dopo aver espugnato Bisanzio dove fece prigionieri molti membri della famiglia reale, diventa smisuratamente ambizioso, tanto da architettare un piano per incoronarsi re, privando così il Senato di ogni potere. Conscio di non aver mezzi e capacità per una tale impresa, pensa bene di allearsi con Serse, al quale prima restituisce molte città che aveva conquistato contro i persiani, e poi libera i prigionieri fatti a Bisanzio. Infine, onde cementare questa nuova alleanza, chiede in sposa la figlia di Serse. Costui non disdegna il progetto di Pausania, che senz’altro, con l’aiuto persiano, avrebbe raggiunto il proprio scopo. Tuttavia, scoperto il piano, gli Efori dichiarano Pausania nemico della patria, ed alla fine lo uccidono nel tempio, dove aveva trovato rifugio.

L’autore deve aver immaginato un dramma, o meglio un melodramma, considerato che il Pausania viene definito “dramma per musica”, di impianto scenico piuttosto fastoso, come, del resto, era uso all’epoca in cui Marsella scrive. Infatti, ai versi è premessa anche l’indicazione delle “Mutazioni di scene”, dalla quale evinciamo le grandiose scenografie, che l’autore aveva ideato.

Resta avvolto nel più totale mistero, se mai qualche musicista si sia incaricato di scrivere la partitura di accompagnamento al dramma, e se esso mai sia stato messo in scena o anche semplicemente adattato per una lettura drammatizzata: insomma non se ne conosce il destino pubblico, per quanto la totale mancanza di notizie intorno all’autore e intorno all’opera stessa, lasciano pensare che il Pausania dovette rimanere un mero esercizio letterario e null’altro.

Dalle poche informazioni riportate nel frontespizio, si possono iniziare a sistemare alcuni tasselli di questo “fantasma” della letteratura drammatica del primo settecento ciociaro. Dunque egli stesso ci informa di essere dottore dell’una e dell’altra legge, ovvero aveva completato, all’epoca della pubblicazione del Pausania, gli studi di diritto civile e di diritto canonico. Inoltre, si presenta come “pastore Arcade”, e membro di ben tre Accademie: quella degli Inculti (che sotto altro nome era nota come Collegio Nazareno), quella dei Secreti (attiva a Roma tra Sicento e Settecento) e quella degli Infecondi (tra i cui membri figura anche l’abate Francesco Lorenzini, che, come vedremo, incrociò il suo percorso umano con quello di Marsella).

La lettera dedicatoria, che apre il volumetto, ci dice che il Pausania è la prima opera che il Marsella pubblica. Naturalmente, dovette essere anche l’unica, dal momento che non esistono tracce in alcun repertorio bibliografico di altre sue opere a stampa. Altresì, l’autore sottolinea la sua “giovanile etade” al tempo in cui pubblica Pausania.

Chiuso il Pausania, Gaetano Marsella sembra sfuggire in maniera inafferrabile. Tuttavia, il dramma per musica che egli ci ha lasciato come unica testimonianza del suo genio, tra le righe ci dice anche un’altra cosa, e cioè che il Marsella conosceva il trattato del Muratori, Della perfetta poesia. E questo, non solo perché Pausania rispetta le prescrizioni che Muratori formula per restaurare l’«antica dignità» della tragedia (tant’è che come lo stesso Marsella afferma nei componimenti che accompagnano il dramma, l’intendimento suo è quello di offrire al sudditi del re, una dilettevole scuola di buoni costumi e una lezione morale sull’esempio di un eroe antico), ma anche perché – abbiamo scoperto recentemente – Gaetano Marsella fu per un breve periodo in contatto epistolare con il Muratori. Infatti, fortunosamente sono giunte a noi otto lettere 8conservate alla Biblioteca Estense di Modena), che il giovane isolano scrisse al grande letterato modenese. Grazie a queste otto lettere – delle quali purtroppo non abbiamo le relative repliche del Muratori, e che probabilmente non furono le sole che Marsella dovette scrivere, ma delle altre traccia non v’è – possiamo aggiungere qualche altro tassello alla biografia del giovane autore.

Fin dalla prima lettera, che è prima in senso assoluto, apprendiamo che Marsella, ammirato dalla sapienza del letterato modenese, intendeva con lui contrarre amicizia. Tuttavia, fin a quel momento (egli scrive il 30 ottobre del 1733) aveva resistito all’impulso di scrivere al suo “maestro”, per rispetto. Ora scrive «affidato sù quella innata urbanità, di cui aspersi contemplo li vostri eruditi scritti». Dunque, Marsella ammette di conoscere gli scritti del Muratori, ed essendo il trattato Della perfetta poesia risalente al 1706, è verosimile che Marsella lo avesse letto e studiato. Apprendiamo in questa prima missiva l’età di Gaetano Marsella. Infatti, poco prima della conclusione dice: «Avrò la sorte di riportarne il saggio parere in qualche mia composizione, in cui dovrete spesso compatire e la poca mia età, che non pur giunge al quarto lustro, e la tenuità del mio ingegno». Dunque nel 1733, il Nostro aveva poco meno di vent’anni, per cui possiamo fissarne la data di nascita intorno al 1714. Il che vuol dire che quando darà alle stampe Pausania – nel 1738 – egli aveva circa ventiquattro anni. E, a quell’età, aveva pure completato gli studi giurisprudenziali.

Il Muratori accorda benevolenza al ragazzo, tant’è che, la seconda lettera si spinge a raccontare di un episodio, «un litigio», accaduto «nella nostra Accademia». Ora, di quale Accademia si tratti non è specificato. Tuttavia, i membri di quest’Accademia furono tutti allertati che di lì a poco avrebbero ricevuto la visita del Duca, «che erasi trattenuto in Roma». Alla visita, furono dallo stesso Marsella recitati due sonetti, «del valore de quali discorrendosi, finita l’Accademia, varj furono i sentimenti; mentre parte affermarono esser’ migliore il primo, parte il secondo, dal’ che [come spesso avviene] si venne alle parole, e dalle parole alle ingiurie, per ovviare a cui il nostro Principe volle, che si rimettesse la lite a due soggetti adeguati».

I due “giudici” prescelti per giudicare i sonetti del Marsella furono da un lato il già citato abate Lorenzini, il che potrebbe far suppore che a Isola fosse attiva una sezione dell’Accademia degli Infecondi, da un altro lato, il duca stesso nominò il Muratori. La lettera è arricchita proprio dai due sonetti, che costituiscono così una preziosissima traccia dell’estro letterario di Gaetano Marsella, antecedente all’“opera prima” data alle stampe. Apprendiamo come si concluse la disputa dalle missive successive, dove il giovane isola ci informa che il Lorenzini, del primo sonetto sostenne «che era un’ pasticcio senza sale», ma accenna anche al benevolo giudizio che il Muratori ha riservato alle composizioni di Marsella.

Nella lettera datata 19 aprile 1734 vi è una parte molto interessante. Sollecitato dalla richiesta del Muratori, che nella risposta precedente gli avrà dovuto chiedere qualcosa circa le vicende politiche della Ciociaria del tempo, il Marsella comincia il racconto delle «novelle del vittorioso esercito Ispano […], e principiarò, come si dice, ab ovo». Il racconto, che si protrarrà per le successive lettere, è dettagliato e dimostra buone doti “giornalistiche” nel giovane autore, che racconta con dovizia di particolari gli spostamenti delle truppe nel territorio tra il Regno di Napoli e quello del papa, i cannoneggiamenti, le alterne vicende della guerra, i tradimenti e i successi. E, tra le altre notizie, trova anche il tempo di spedire al suo “idolo” un’altra sua composizione inedita.

Il Muratori dovette apprezzare i resoconti fornitigli dal giovane isolano, il quale apre la lettera che invia il 18 maggio 1734, con un «Giocondissima sopra ogni modo mi son’ state le nuove, delle quali V. S. Ill.ma si è degnata favorirmi, ed ho moltissimo goduto, che gli sian state care le mie». Poi, affinché il suo interlocutore abbia nuova materia circa le guerre, «espongogli un ampla serie di funesti assieme e prosperi avvenimenti».

L’ultima lettera, con la quale si chiude – invero bruscamente – il carteggio Marsella-Muratori è datata 18 giugno 1734. I fatti bellici di cui Marsella è stato osservatore e reporter ante litteram paiono quietati. Il carteggio si chiude con una richiesta di informazioni sulla situazione politica di Modena, alla quale sicuramente il Muratori avrà risposto, vista la sua consueta cordialità. Purtroppo, però, non abbiamo alcuna risposta, né altri invii di Marsella. Che, chiude il messaggio, con una nota di amarezza personale.

Infatti, lamenta che «dal freddo silenzio di V.S. Ill.ma ho compreso esser’ il mio sonetto da niente, però la supplico a certificarmene in altra sua gentilissima». Non è dato sapere quale fossero i sentimenti di Muratori a proposito del sonetto di Gaetano Marsella, ma appare più verosimile ritenere che nelle precedenti repliche egli non si sia espresso, non tanto perché ritenesse “da niente” la composizione, quanto perché gli affari di natura politica, che abilmente il ragazzo gli descriveva, ne avevano completamente assorbito l’attenzione.  Infatti, un giudizio negativo del Muratori avrebbe con ogni probabilità dissuaso il giovane dal continuare la sua carriera letteraria. Che invece, proseguì almeno per i quattro anni successivi, e giungere al punto da dare alle stampe una composizione drammatica.

In mancanza di altre notizie successiva alla pubblicazione del Pausania, è presumibile ritenere che la vita di Gaetano Marsella non dovette essere troppo lunga, e anzi di lì a poco si spense, consegnandolo al novero di quegli autori dimenticati nel polveroso oblio di uno scaffale.

– Vincenzo Ruggiero Perrino

PASTORALE DIGITALE i due sonetti PASTORALE DIGITALE frontespizio Pausania

 

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