Meditazione per il Venerdì Santo

Stemma di Mons. Gerardo Antonazzo

SETE E SILENZIO

Meditazione per il Venerdì Santo

Sora, 2 aprile 2021

 

Tra l’ora della crocefissione di Gesù e quella della sua morte, i tre vangeli sinottici annotano l’ora sesta come il momento delle tenebre: “Quando fu mezzogiorno, si fece buio (skótos: Gv 1,5) su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio” (Mc 15, 33). L’ora di maggiore luminosità cede paradossalmente il passo all’avanzare inatteso delle tenebre che preannunciano l’evento più drammatiche consumato nella storia dell’umanità: la morte di Dio. In pieno mezzogiorno è buio totale.

 

La sete

Era l’ora sesta anche in Samaria quando Gesù chiede da bere alla donna Samaritana presso il pozzo di Giacobbe: “Dammi da bere” (Gv 4,10). Sulla croce Gesù grida ancora la sua sete: Lui che aveva promesso fiumi di acqua viva non ha chi raccolga la sua sete e la sua arsura d’amore (Gv19,28). La richiesta di Gesù alla Samaritana e l’arsura sofferta sulla Croce rivelano la sete che Dio ha della sete dell’uomo: “Ho sete della tua sete … Io sono l’acqua viva”. Gesù aveva già gridato nel cuore della folla presente a Gerusalemme per la festa: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me” (Gv 7,37-38). Sulla croce si compie la promessa di fiumi di acqua viva: “Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate (Gv 19,34-35). E’ l’effusione straripante dell’amore del suo Spirito. La sete che brucia il cuore di Cristo racchiude l’arsura provocata dai tradimenti inattesi, abbandoni inaspettati, fughe vergognose, insulti sputi e derisioni sarcastiche. L’uomo dei dolori è esposto alla tentazione della disperazione: al terribile buio dell’ora sesta nella quale l’uomo crocifisso ha perso tutto e tutti, si associa l’assordante silenzio di Dio.

 

Il silenzio

Gesù è solo, tormentato soprattutto dall’abbandono da parte del Padre. Gesù è assalito dal dubbio, e l’imprecazione rasenta l’offesa: “Gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Nel seguito del Salmo 22, che Gesù recita sulla Croce, l’orante lamenta ancora: “Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me” (v. 3). Dio, il Padre, tace piuttosto che far udire ancora una volta la sua voce dalla nube, come nel battesimo presso il fiume Giordano (Mt 3,17), come sul monte della trasfigurazione (Mt 17,5). Quale terribile arsura deve essere stata l’assenza di parole essenziali! quale balsamo, invece, sarebbe state sulle ferite inflitte dalla malvagità dei nemici! quale carezza una sola parola del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”.  Il buio e il silenzio avvolgono tutta la terra; su tutta la terra si fa. Nella sofferenza del Cristo è racchiusa quella di tutta l’umanità di ogni luogo e di ogni epoca. Le parole che bruciano nel petto del Cristo interpretano e danno voce al dolore di ogni creatura sulla faccia della terra: “Fino a quando Signore…?”; “Perché, Signore, ti tieni lontano, nei momenti di pericolo ti nascondi?”; “Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, l’anima mia rifiuta di calmarsi. Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito” (Sal 22; 13; 10; 77). È la notte della disperazione, della delusione. Quando alle ragioni umane dello sconforto si aggiunge anche il silenzio di Dio, allora sentiamo di essere in piena tempesta: “A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa. Ascolta la voce della mia supplica, quando a te grido aiuto” (Sal 28,1-2). Il silenzio di Dio rende ancor più atroce l’angoscia. È in questi momenti che raggiungiamo l’essenza profonda della nostra fede, quando siamo chiamati a lodare e servire Dio non dentro le consolazioni di una vita tutto sommato agiata, ma quando siamo gettati nell’arsura del deserto e nella notte oscura dell’angoscia, della paura, del dolore e dell’incomprensione.

 

La desolazione

Qui affiora tutto il dramma della derelizione di Cristo: Cristo consegnato, abbandonato nelle mani degli uomini, che vive l’abbandono del Padre. “Si apre la linea della desolazione interiore, di tutte quelle prove di apparente abbandono di Dio vissute da persone che lo amano, vissute talora lungamente e amaramente. Chi passa attraverso tali esperienze dolorosissime, purificatrici, terribili, afferma che non c’è nessuna sofferenza al mondo che sia paragonabile; è la sofferenza propria di chi, avendo messo in Dio tutta la sua speranza e tutto il suo amore, sperimenta momenti di oscurità, di disgusto, di solitudine, di aridità, quasi di disperazione” (C.M. Martini, Dio sulla croce). Leggendo qualche opera dei mistici si può intuire qualcosa del mistero dell’abbandono, e forse ritrovare un po’ di fiducia, forse anche di consolazione, quando esso lambisce le rive anche della nostra esistenza. Sant’Ignazio di Loyola è passato per queste prove, e descrive l’orrore della desolazione che lo prostrava come “esperienze terribili. Nel libro degli Esercizi spirituali parla della desolazione: “Chiamo desolazione […] l’oscurità dell’anima, il suo turbamento, l’inclinazione verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a vari tipi di agitazioni e tentazioni, quando l’anima è sfiduciata, senza speranza, senza amore, e si trova […] come separata dal suo Creatore e Signore” (n. 317). Il senso di abbandono da parte di Dio ci espone alla tentazione di abbandonare Dio. Anche se sappiamo di sbagliare, non riusciamo a fare a meno di pensare così: se Dio non vuole o non può fare nulla per me, allora non vale la pena che io mi dia pensiero per lui … un Dio debole o impotente, che ha avuto il coraggio di abbandonare il Figlio morente sulla Croce, come potrà interessarsi di me?  “Gesù ha voluto essere quasi schiacciato da queste cose per poterle prendere su di sé … Per esempio un tumore, pochi mesi di vita. Allora succede come una sorta di ribellione, di non accettazione. C’è una lotta interiore. Notte della sofferenza, notte della fede in cui non si sente più la presenza di Dio. Questo è molto duro, soprattutto quando si è impegnati (C. M. Martini). Cosa fare nella desolazione, nel tempo dello sconforto? “Quando sei desolato, non fare mai mutamenti. Resta saldo nei propositi che avevi il giorno precedente a tale desolazione, o nella decisione in cui eri nella precedente consolazione. Infatti, mentre in questa ti guida di più lo spirito buono, nella desolazione ti guida quello cattivo, con i consigli del quale non puoi imbroccare nessuna strada giusta (Sant’Ignazio, Esercizi spirituali, n. 318).

 

L’abbandono

Gesù passa dalla crisi dell’abbandono da parte del Padre, alla fiducia nell’abbandonarsi al Padre. Quando si vede buio e non si sta bene, come agire e cosa decidere? Quando sei abitato da questo tormento, il filone spirituale dei contemplativi ti direbbe una cosa: ciò che non devi fare è prendere decisioni nuove. Dunque, non ti allontanare dalla preghiera, non abbandonare la santa Messa e l’eucarestia, chiedi il perdono e la riconciliazione con il sacramento della confessione. Rimani saldo in ciò che avevi deciso prima del tempo della tempesta in cui non riesci a vedere nemmeno in che direzioni stai andando. Si tratta di un tempo di smarrimento in cui non si vede il fondale della tua vita in cui sono depositati segreti, scelte, ricordi ecc. Ma questo non è sparito, nulla è stato distrutto e sottratto, è solo confuso dalle emozioni agitate che non ti permettono più di vedere attraverso l’acqua cristallina. “Se sei impaurito, non fuggire; se sei arrabbiato, non attaccare; se sei stufo, non sederti; se stai facendo un lavoro e lo vuoi lasciare, portalo a compimento per ricaricarti e ritrovarti… se sei distratto e arido nella preghiera, continua a pregare. Altrimenti la desolazione ti vince” (F. Occhetta). Il Signore riporterà nella piena luce del mattino di Pasqua.

 

Meditazione nella chiesa di Santo Spirito

J.P. Sartre, filosofo francese ateo e nichilista, nella notte di Natale rinchiuso anche lui nel campo di concentramento nazista, su richiesta di altri carcerati compone un testo nel quale descrive lo stupore e lo sguardo di Maria sul Bambino: “Maria stringe fra le braccia il suo piccolo, ed è come se dicesse: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi rassomiglia”.

Papa Francesco sollecita a considerare e valorizzare di Maria accanto alla Croce soprattutto la sua maternità, l’essere Madre. Non è difficile questa sera per noi immaginare la tenerezza di Gesù Crocifisso e la commozione della Madre che ancora di più può pensare tra sé e sé: “Questi è Dio, questi è mio figlio mio, l’amato!”. L’affetto e il pensiero interiore di Maria verso il Figlio crocifisso e morente rimandano alle parole con le quali il Padre dal cielo aveva confermato ripetutamente la missione di Gesù suo Figlio, inviato come “servo”: “Questi è il mio Figlio, l’eletto…ascoltatelo!”. Maria non abbandonerà mai più la missione di essere serva del Signore, e custodire Colui che ha generato dal suo grembo, fino al Calvario.

La Madre non poteva mancare nel momento culminante della passione sul Calvario. La incontriamo accanto alla Croce nella posizione materna più scomoda e nella fedeltà più tormentata in quel suo rimanere fedele “serva” del Signore. Gettato nella sofferenza più atroce fatta di dolore fisico, di umiliazioni morali e di prostrazioni spirituali, l’uomo dei dolori, Gesù sente nelle sue piaghe la tentazione della disperazione.

Maria condivide insieme con il Figlio l’obbedienza alla volontà del Padre. In quel momento la sostengono le parole da lei pronunciate a Nazareth e che l’avevano impegnata dinanzi a Dio come “serva”: “Avvenga per me secondo la tua parola”. Adesso è questo ciò che Dio il Padre chiede anche a Lei. Stare come Madre accanto al Figlio. Sente di non potersi tirare indietro proprio adesso. Sul Calvario, vivendo la prova della sofferenza più atroce, qual è quella di sopravvivere alla morte del Figlio crocifisso e derelitto, Lei porta a compimento fedelmente la missione ricevuta: “Ecco la serva del Signore”.

Mi piace immaginare come sotto la croce Maria abbia potuto supplire al silenzio del Padre, per dare consolazione al Figlio sussurrando parole vere di madre: “Questi è il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento”. Saranno state queste parole, o altre simili, ad aiutare il Figlio a confidare nel Padre, a riprendere il respiro dell’anima (che da lì a poco avrebbe riversato sull’umanità nell’atto di “spirare”) e ad abbandonarsi definitivamente fra le sue braccia: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito (Lc 23,46).

La missione materna di Maria non era quella di sottrare il Figlio alla morte, ma aiutarlo a viverla secondo la volontà del Padre, aiutarlo così a morire. Non sarà la dolce morte dell’eutanasia a dare dignità al morire, ma il morire dolcemente tra le braccia di qualcuno. Come ha saputo fare Maria.

 

+ Gerardo Antonazzo

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