Omelia per l’inizio del ministero di parroco di don Ercole Di Zazzo

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PADRE PERCHE’ FRATELLO

Omelia per l’inizio del ministero di parroco di don Ercole Di Zazzo

Broccostella, 3 ottobre 2015

 

Mi sembra opportuno meditare con voi sul testo importante della seconda lettura della Parola di questa domenica (Eb 2,9-11), orientati a questa scelta dalla celebrazione con la quale oggi il carissimo don Ercole è presentato dal Vescovo come parroco per la comunità di Broccostella, che lui ha già servito per due anni in qualità di Amministratore parrocchiale. Non si tratta di un atto burocratico, né esclusivamente giuridico. E’ segno concreto della fiducia del Vescovo il quale, raccogliendo i ripetuti racconti di don Ercole in merito alla sua personale esperienza, e le numerose testimonianze della stessa comunità, ritiene di riconoscere in lui le qualità umane e spirituali necessarie per il buon governo pastorale. Grazie, don Ercole, per quanto hai già operato in questo periodo con discrezione e con il massimo rispetto per le persone, in particolare per i tuoi collaboratori, coinvolti direttamente nella programmazione delle attività di evangelizzazione.

Di poco inferiore agli angeli

 

Colui che è stato salutato come Figlio di Dio e Signore (1,5-10), è ormai assimilato all’uomo e al figlio dell’uomo (v. 6). Ecco perché,dopo aver affermato nei versetti precedenti l’assoluta superiorità del Figlio anche in rapporto agli angeli, vediamo apparire nel brano di oggi il concetto del suo abbassamento (kenosis); un abbassamento tale che lo ha portato a posizionarsi e ad operare su un piano “inferiore agli angeli” (vv. 7a.9a). Vieni così evidenziata non solo l’umanità del Figlio, ma anche la conseguente dimensione corporativa del destino del Figlio, perché in quanto vero uomo grazie a Lui ogni uomo è reso partecipe del suo destino “di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto”. E’ grazie a Lui, se uniti a Lui, che ognuno di noi può fare “una buona fine”.

Questa è una prospettiva estremamente importante anche per il ministero del presbitero: abbassarsi per immedesimarsi nella vita dei suoi fratelli e delle sue sorelle, condividere umilmente il cammino proponendosi come pastore che, mentre sta alla guida del gregge, sa stare anche in mezzo per fraternizzare con la vita reale della sua gente. E’ Gesù che ci invita a fare come Lui: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Bontà di cuore e umiltà di animo sono indispensabili per non collocarsi mai al di sopra degli altri, mai sul piedistallo o su un gradino di superiorità che genera distanza e distacco. Questo libera la nostra gente dall’illusione di pretendere il prete-perfetto, il prete-modello, il prete-ideale. Il prete è capo e guida non per le sue capacità e bravura, non per i propri meriti e titoli, ma soltanto perché scelto da Dio e conformato a Cristo pastore delle sue pecore. Il sacerdote è senza dubbio investito di un’alta dignità che non lo innalza, ma lo accosta con delicatezza alla vita degli altri per servirli con la stessa umiltà di Cristo.

La “perfezione” della sofferenza

 

L’autore afferma che Gesù è stato reso “perfetto” dalla sofferenza che ha vissuto. L’abbassamento di Cristo, Figlio di Dio, non consiste solo nell’assumere la condizione umana, ma nel fatto che l’umiltà del Figlio di Dio diventerà drammatica umiliazione nello scherno del giudizio iniquo, nel maltrattamento dei soldati, nell’insulto della gente sul Calvario, nella deriva drammatica della sua morte, segnata dall’abbandono e dall’estremo dolore. Gesù accetta volontariamente, ma non senza la lacerazione interiore fino al rischio della disperazione, di sacrificare la propria esistenza, consapevole che questo andasse a beneficio e a vantaggio di tutti. E’ esaltante, caro don Ercole, anche se faticosa, l’idea della propria vita impegnata per gli altri nel segno della rinuncia, del sacrificio, della dedizione diuturna, delle mortificazioni e incomprensioni, delle mancate gratificazioni e gratitudini, pur sempre disponibili a vivere così per favorire il bene degli altri, per vedere gli altri felici, a vantaggio della crescita e della maturazione della loro vita cristiana.

Tale sofferenza rende “perfetti”, come hanno reso “perfetto” Gesù. Cosa significa? Non si tratta del raggiungimento di una perfezione di natura morale, come di una persona senza errori o difetti. Nel contesto della Lettera agli Ebrei, la “perfezione” collegata con l’esperienza dell’obbedienza nella sofferenza (vedi anche Ebr 5,8-9: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna) significa piuttosto la prova della sua “idoneità” alla funzione di Sommo sacerdote perché capace di stabilire una vera e definitiva, “nuova ed eterna” alleanza tra Dio e gli uomini, stipulata non con l’offerta di animali ma con il sacrifcio della propria vita. Per questo Gesù merita in assoluto il titolo di vero Sommo sacerdote. Così anche per te, caro don Ercole: l’esperienza della prova ti purifica, e ti rende idoneo a svolgere il ministero, configurato a Gesù sommo sacerdote mediante la tua partecipazione al sacerdozio del Vescovo. L’obbedienza a Dio non di rado ha il sapore della Croce; ma è nel segno della Croce che la nostra vita viene purificata e salvata, come anche la vita dei nostri fratelli. Non si può essere presbiteri senza l’amore crocifisso, senza vivere la passione dell’amore che spesso ci chiede di passare attraverso la passione delle cose difficili e delle prove da affrontare.

E’ questa capacità di vivere il dolore per amore che ci rende “perfetti”, cioè idonei a svolgere il nostro ministero che è sempre un “officium amoris”, e non un mestiere né una professione, per quanto speciale. Non mancano ad ogni pastore le frustrazioni per le sue fragilità, per le incomprensioni da parte della gente, per le fatiche nel discernimento, per l’impegno a favore del bene, per l’edificazione sofferta della comunione ….Amare nella tribolazione richiede l’offerta della propria vita, donata e sacrificata per il bene degli altri. In questo modo si partecipa del sacerdozio di Cristo, passando dalla conformazione sacramentale alla conformazione esistenziale. Non si diventa presbiteri “idonei” senza la capacità di dare valore alla Croce del Signore Gesù.

 

Li chiama “fratelli”

 

Per Gesù era evidente la sua vicinanza con Dio, in quanto Figlio; ma si fa nostro “fratello” per ricondurre anche noi insieme con Lui al Padre, grazie alla riconciliazione sacerdotale compiuta per mezzo della Croce. Per questo il testo afferma: “Provengono tutti (Cristo e gli uomini) da una stessa origine (Dio Padre); per questo non si vergogna di chiamarli fratelli…”.

Lui non si vergogna di chiamare fratello ciascuno di noi.

Se ti sei accorto di aver tradito la fiducia della persone che ami, Lui non si vergogna di chiamarci fratelli.

Se hai nascosto la tua vita sotto il velo della menzogna, Lui non si vergogna di chiamarti fratello.

Se hai perso la speranza, Lui non si vergogna di chiamarti fratello.

Se, per la noia, hai fatto di tutto per anestetizzare la tua vita ed evadere da essa, Lui non si vergogna di chiamarti fratello.

Se ti sei accorto di aver fatto del lavoro, del denaro, del piacere l’unico criterio della tua esistenza, Lui non si vergogna di chiamarti fratello.

Se hai deciso, fino ad oggi, di vivere senza di Lui, Lui non si vergogna di chiamarti fratello.

Là dove noi proviamo vergogna di noi stessi, lui non si vergogna di chiamarci fratelli.

Ci viene incontro, per invitarci a fare un po’ di strada con Lui, a partire da quel punto esatto in cui ci troviamo. E ci invita a fare un po’ di strada con Lui, perché Lui, il Figlio di Dio, vuole farsi nostro fratello, vuole farci condividere la sua esperienza di “famiglia”, quella che ha vissuto nella Trinità: l’amore del Padre, nello Spirito Santo.

Caro don Ercole, il presbitero, sull’esempio e nella forza dell’amore di Cristo solidale con gli uomini non deve mai perdere di vista la sua strutturale solidarietà con i suoi “fratelli”. Il presbitero è scelto tra i fratelli per servire i fratelli, fratello tra fratelli. Questa condivisione autentica e reale si fa solidarietà tra la propria umanità e l’umanità del popolo di Dio. Solidarietà significa innanzitutto rispetto per la dignità degli altri, figli di Dio e tuoi fratelli, partecipazione piena alla loro esistenza reale, comprensione delle loro fatiche e stanchezze, aspirazioni, desideri e bisogni. Tu sei fratello tra fratelli per camminare anche tu con loro sulla strada del ritorno al Padre, grazie alla comune fede in Gesù Cristo. Non puoi oggi essere costituito come “segno” della paternità di Dio senza continuare a vivere da fratello con la tua gente. Nessuno sa diventare padre senza aver vissuto da fratello.

A volte nelle parrocchie vediamo una certa disgregazione del senso di fraternità per i tanti ‘distinguo’ … “ma noi non siamo di quelli”, “non sono i nostri”, “noi siamo altri”. Gesù non si vergogna di chiamarci tutti indistintamente fratelli! È venuto come fratello nostro mandato dal Padre, per parlarci del Padre e per donarci l’amore del Padre, il perdono del Padre, per riportarci al Padre, per donarci il titolo di figli adottivi e fratelli suoi, e quindi anche fratelli fra di noi. La fraternità è l’inizio della pace, è il principio del Regno che si instaura nei cuori. Quando vengono abbattuti i muri di divisione, i muri di separazione, e quando veramente lo Spirito Santo crea legami nuovi ecco allora l’instaurazione del Regno: il Signore Gesù Cristo assume autorità sui cuori, assume autorità sulla vita delle persone, sulla qualità delle loro relazioni, sulle menti, sulle azioni, sui progetti, sulle opere.

+ Gerardo Antonazzo

 

 

Categorie: Diocesi,Documenti e Omelie

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