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Appunti Paolo Benanti su “Digital Age”

Digital Age

Paolo Benanti

(Convegno Aquino 2019)

 

  1. Una premessa: il Digital Age

Viviamo in una società e in un tempo caratterizzato dal digitale, il Digital Age, un periodo complesso a causa dei profondi cambiamenti che queste tecnologie stanno producendo.

L’effetto della esponenziale digitalizzazione della comunicazione e della società sta portando, a detta di studiosi come Marc Prensky[1], a una vera e propria trasformazione antropologica: l’avvento dei nativi digitali. Nativo digitale (in inglese digital native) è una espressione che viene applicata ad una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, internet, telefoni cellulari e MP3. L’espressione viene utilizzata per indicare un nuovo e inedito gruppo di studenti che sta accedendo al sistema dell’educazione. I nativi digitali nascono parallelamente alla diffusione di massa dei computer a interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multischermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse.

Per contro, Prensky, conia l’espressione immigrato digitale (digital immigrant) per indicare una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una delle differenziazioni tra questi soggetti è il diverso approccio mentale che hanno verso le nuove tecnologie: ad esempio un nativo digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica (senza definirne la tipologia tecnologica) mentre un immigrato digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica digitale, in contrapposizione alla macchina fotografica con pellicola chimica utilizzata in precedenza. Un nativo digitale, per Prensky, è come plasmato dalla dieta mediale a cui è sottoposto: in cinque anni, ad esempio, trascorre 10.000 ore con i videogames, scambia almeno 200.000 email, trascorre 10.000 ore al cellulare, passa 20.000 ore davanti alla televisione guardando almeno 500.000 spot pubblicitari dedicando, però, solo 5.000 ore alla lettura. Questa dieta mediale produce, secondo Prensky, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero che modificherà la struttura cerebrale dei nativi digitali. Multitasking, ipertestualità e interattività sono, per Prensky, solo alcune caratteristiche di quello che appare come un nuovo e inedito modo di comprendere e comunicare dell’essere umano. Inoltre Prensky sostiene che, sia pure in modo irregolare e alla nostra personale velocità, ci muoviamo tutti verso un potenziamento digitale che include le attività cognitive[2]. Secondo Prensky gli strumenti digitali già estendono e arricchiscono le nostre capacità cognitive in molti modi. La tecnologia digitale migliora la memoria, per esempio attraverso gli strumenti di acquisizione, archiviazione e restituzione dei dati. La raccolta digitale di dati e gli strumenti di supporto alle decisioni migliorano la capacità di scelta consentendoci di raccogliere più dati e verificare tutte le implicazioni derivanti da quella domanda. Il potenziamento digitale in ambito cognitivo, reso possibile da laptop, database online, simulazioni tridimensionali virtuali, strumenti collaborativi online, tablet e da una serie di altri strumenti specifici per diversi contesti, è oggi per Prensky una realtà in molte professioni, anche in campi non tecnici come la giurisprudenza e le discipline umanistiche[3].

  1. Digital Age come fenomeno religioso

Nella storia del pensiero, al di là dei momenti di discussione accademica e di riflessione che hanno segnato lo sviluppo della filosofia, di fatto si è assistito al ricorso a diverse forme di autorità per sintetizzare dei criteri che fondassero e orientassero le scelte delle persone. Per migliaia di anni gli esseri umani hanno indicato l’autorità come venuta e consegnata agli uomini dagli dei.

Poi, durante l’epoca moderna, l’umanesimo ha gradualmente spostato l’autorità dalle divinità alla persona. Jean-Jacques Rousseau nel 1762 ha riassunto questa rivoluzione nell’Émile, il suo trattato sull’educazione.

Quando Rousseau parla della ricerca di regole di condotta nella vita dice di averle trovate «nel profondo del mio cuore, tracciate dalla natura in caratteri che nulla può cancellare. Ho bisogno solo di consultare me stesso per quanto riguarda ciò che desidero fare; quello che sento di essere buono è buono, quello che sento di essere cattivo è cattivo».

I pensatori umanisti come Rousseau produssero una trasformazione del principio di autorità, convincendoci che non gli dei ma i nostri sentimenti e desideri sono la fonte ultima di significato e che la nostra volontà è, dunque, la più alta fonte di autorità.

Ora, in questa epoca di insorgenza di intelligenze artificiali, una nuova rivoluzione nel principio di autorità e nella comprensione di quali siano le fonti autorevoli sta per avvenire.

Se nell’antica Grecia le fonti autorevoli erano gli oracoli, legittimati da mitologie e credenze, a partire dall’umanesimo l’autorità umana è stata legittimata da ideologie umanistiche. Sembrerebbe che i nuovi guru dell’high-tech e i profeti della Silicon Valley stiano creando una nuova narrazione universale che legittima una nuova fonte di autorità: gli algoritmi di intelligenza artificiale e i Big Data.

Questo nuovo romanzo, questa nuova fondazione religiosa, questa sorta di mitologia del XXI secolo potremmo chiamarla digitalesimo. Nella sua forma estrema i fautori di questa visione del mondo digitalista percepiscono l’intero universo come un flusso di dati, vedono gli organismi viventi come poco più di algoritmi biochimici e credono che esista una vocazione cosmica per l’umanità: creare un sistema di elaborazione dati onnicomprensivo e poi, nell’eschaton del cosmo, fondersi in esso.

Dal punto di vista dell’annuncio della fede ci troviamo di fronte a una inedita e sfidante modalità che cambia le coordinate di riferimento nel processo della fiducia e dell’attribuzione di autorevolezza. Il modo con cui chiediamo a un motore di ricerca, agli algoritmi di un’intelligenza artificiale o a un computer alcune risposte su questioni che riguardano i nostri processi più intimi, si pensi ai software per trovare il partner o l’anima gemella, ha una matrice che potremmo definire di natura religiosa: ci relazioniamo alla macchina e alla sua risposta con un atteggiamento che non è molto differente da quello che avevano quanti, nell’antichità, si rivolgevano ad oracoli e aruspici per conoscere il loro destino. Il digitalesimo, questo nuovo modo di relazionarsi e credere al digitale, assume in alcuni i tratti di un vero e proprio fenomeno religioso e come tale va considerato nel pensare un annuncio di fede.

Il digitalesimo, con queste sue componenti tecniche e religiose, unito alla grandissima pervasività dei mezzi di cui dispone, Internet è una struttura sempre più globale, potrebbe dar luogo a una cultura globale che formerà soprattutto il modo di pensare e credere delle prossime generazioni di giovani. Le nuove generazioni saranno sempre più globalmente digitali e sempre di più presenteranno caratteristiche e modi di pensiero globali. Le grandi piattaforme di condivisione video, i social networks e i sistemi di chat globale sembrano annunciare l’avvento di una generazione di giovani globale grazie al loro potere di diffusione e di istantaneità.

Questo oltre che una sfida può essere un’opportunità. Sviluppare forme e strumenti in grado di decodificare le istanze antropologiche che si pongono alla base di questi fenomeni e affinare modi di evangelizzazione per la cultura digitale consente non solo di comprendere il presente ma di offrire azioni evangelizzatrici globali e diffuse come globale e diffuso è il Digital Age.

  1. Alcuni punti su cui portare un discernimento illuminato dalla fede

Appare così evidente come la questa, specie nella pervasività sociale e culturale del Digital Age, ci cambi, tanto nel modo di comprenderci quanto in quello di comprendere il mondo. Questo risulta particolarmente evidente per le giovani generazioni. Oggi il giovane adulto è un’isola in un arcipelago di relazioni reali, presunte o immaginate e sembra che le nuove generazioni non sempre siano formate e culturalmente attrezzate per affrontare la sfida che la società digitale propone. I media, per loro stessa natura, sono elementi che si interpongono tra noi e il reale: ci forniscono versioni selettive del mondo, più che un accesso diretto ad esso combinando insieme diversi linguaggi in un testo che viene comunicato e diffuso con caratteristiche che oggi assumono i  tratti della globalità e dell’istantaneità.

Ci sembra che si debba parlare con urgenza della necessità di una media education. L’educazione ai media o media education[4] è un’espressione entrata in uso con lo sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione di massa e si riferisce alla formazione delle capacità di utilizzare opportunamente i mezzi di comunicazione di massa[5]. L’esito di questa educazione è la cosiddetta competenza mediale (media literacy) che appare quanto mai urgente specie per le nuove generazioni. La media literacy include, secondo l’autorevole parere del pedagogista tedesco Dieter Baacke[6], diverse dimensioni che possono essere riassunte così: la capacità critica dei mezzi di comunicazione di massa[7]; la mediologia[8]; la capacità di uso[9]; la capacità di creazione mediatica[10]. La media education è una forma di educazione che mira a sviluppare una competenza con i testi dei media.

Normalmente si usa descrivere questa competenza come alfabetizzazione. Questo termine ci sembra oggi quanto mai adatto, infatti ci possiamo chiedere se non ci si trovi di fronte a una nuova forma di analfabetismo. L’analfabetismo, strictu sensu, è l’incapacità completa di saper leggere e scrivere, dovuta per lo più a un’istruzione o a una pratica insufficiente. In senso più lato, l’analfabetismo indica anche l’ignoranza di argomenti considerati di fondamentale importanza, ad esempio l’analfabetismo informatico o politico. Oggi si usa parlare anche di analfabetismo funzionale, con il quale si designa l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Non si tratta quindi di un’incapacità assoluta, in quanto l’individuo possiede comunque una conoscenza di base di lettura e scrittura, che usa però in maniera incompleta e non ottimale. L’UNESCO definisce, a partire dal 1958, l’analfabetismo come la condizione di una persona che non sa né leggere né scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita giornaliera. La condizione di abbandono in cui lasciamo le nuove generazioni di nativi digitali e l’assenza di formazione per gli immigrati digitali, facendo nuovamente ricorso alla terminologia di Prensky, sta di fatto generando un analfabetismo digitale in cui i testi che i media digitali producono diventano inaccessibili ai più a livello di valutazione oggettiva e valoriale. Questa inedita condizione, in cui non sappiamo più distinguere il valore dell’informazione che, come un fiume in piena, ci sommerge quotidianamente, forse può portare a una condizione di incapacità di autonomia dei cittadini nella società del Digital Age in cui i media sono la maggiore espressione culturale.

Inoltre da più parti si riconosce come i media, specie quelli di natura digitale, siano gli agenti di socializzazione nella società contemporanea arrivando, secondo alcune analisi, a sostituisce gli agenti tradizionali quali la famiglia, la Chiesa e la scuola.

Non dobbiamo pensare che queste nostre considerazioni vadano tradotte in una visione che tratteggi una onnipotenza dei media, ma semplicemente si riconosce, dall’analisi fenomenologica proposta, come i media, specialmente quelli che caratterizzano il Digital Age, sono radicati nel tessuto e nelle abitudini quotidiane e forniscono risorse simboliche che oggi ciascuno di noi, coscientemente o meno, impiega per condurre e interpretare le relazioni e definire la sua identità.

Ci troviamo di fronte a un problema etico legato all’identità e all’educazione delle nuove generazioni ma anche di fronte a un problema religioso: nella fede capiamo la vita come una vocazione e la Relazione con il Cristo Signore come capace di illuminare tutte le altre relazioni.

Su un piano operativo dobbiamo stimare e comprendere i limiti degli apprendimenti impliciti che il Digital Age fornisce quotidianamente. Alcune perplessità nascono anche guardando al fatto che con il facile accesso a internet, alla posta elettronica (e-mail) e ai social network molte forme di interazione personale sono diventate virtuali[11] soppiantando per intero il bisogno, specie nelle giovani generazioni, di forme di relazione tradizionali. Inoltre, l’esplosione della tecnologia digitale con le sue innumerevoli prestazioni e possibilità di potenziamento digitale, per utilizzare un espressione di Prensky, fa temere i rischi insiti in un divario eccessivo tra digitali ricchi e poveri, non solo a livello di persone, ma di nazioni. è una situazione gravida di conseguenze sotto il profilo economico, culturale e sociale, che fa appello alla responsabilità dei singoli come degli Stati. Si è introdotto a tal riguardo il termine digital divide. Con digital divide, o divario digitale, si indica il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (in particolare computer e Internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale[12]. Oltre a indicare il divario nell’accesso reale alle tecnologie, la definizione include anche disparità nell’acquisizione di risorse o capacità necessarie a partecipare alla società dell’informazione.

Infine ci sembra opportuno sollevare domande su quale sistema di valori la comunicazione offre ai giovani adulti su temi quali: il senso della vita, la corporeità, l’affettività, l’identità di genere, la giustizia e la pace[13]. Nel secolo scorso Harold Innis ha mostrato con le sue tesi come i media non siano mai neutrali[14]; per loro stessa natura, essi strutturano sia le interazioni tra gli individui sia la forma e la circolazione delle conoscenze; la società può solo modellare e dare indicazioni (entro certi limiti) ai media che si vanno via via sviluppando. 

 

 Bibliografia

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Note

[1] Cf. M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon 9(5), 1-6, http://www.scribd.com/doc/9799/Prensky-Digital-Natives-Digital-Immigrants-Part1 (accesso 8.11.2013); Id., Digital Natives, Digital Immigrants, part 2: Do They Really Think Differently?, On the Horizon 9 (6), 1-6. http://www.twitchspeed.com/site/Prensky%20-%20Digital%20Natives, %20Digital%20Immigrants %20-%20Part2.htm (accesso 8.11.2013).

[2] Cf. M. Prensky, H. Sapiens Digital: From Digital Immigrants and Digital Natives to Digital Wisdom, Inovvate 5(3), http://www.innovateonline.info/index.php?view=article&id=705 (accesso 8.11.2013).

[3] Prensky preferisce parlare di potenziamento digitale piuttosto che di potenziamento tecnologico per tre motivi (cf. M. Prensky, H. Sapiens Digital: From Digital Immigrants and Digital Natives to Digital Wisdom, op. cit.). In primo luogo perché oggi quasi tutta la tecnologia è o digitale o supportata da strumenti digitali. In secondo luogo la tecnologia digitale si distingue dalle altre in quanto è programmabile, cioè capace di essere indotta a fare, a livelli sempre più precisi, proprio ciò che si desidera (questa capacità di personalizzazione è il cuore della rivoluzione digitale). In terzo luogo la tecnologia digitale investe sempre più energie in versioni sempre più piccole di microprocessori che costituiscono il nucleo di buona parte della tecnologia capace di potenziare la cognizione. Tale miniaturizzazione, insieme ai costi in continua riduzione, rappresenta l’elemento che renderà la tecnologia digitale disponibile per tutti, seppure a ritmi diversi in luoghi diversi. Il discorso sul potenziamento (enhancement) è troppo vasto e complesso per essere ulteriormente discusso in queste pagine; per approfondimenti rimandiamo a P. Benanti, op. cit.

[4] L’espressione educazione mediatica è una locuzione imprecisa, utilizzata da alcune scuole ma non in letteratura (cf. L. Galliani, Appunti per una vera storia dell’educazione ai media, con i media, attraverso i media, Studium Educationis 7(3)(2002) pp. 563-576 e D. Felini, Pedagogia dei media. Questioni, percorsi e sviluppi, La Scuola, Brescia 2004)

[5] La media education non va quindi confusa con l’educazione con i media, generalmente indicata con l’espressione didattica tecnologica o tecnologie didattiche, laddove i mezzi di comunicazione sono considerati semplicemente in prospettiva strumentale.

[6] Cf. D. Baacke, Medienpädagogik, Niemeyer, Tubinga 1997.

[7] L’utente deve divenire in grado di riflettere sui contenuti e di analizzarli criticamente, riconoscendo anche i pericoli delle nuove tecnologie di comunicazione.

[8] La conoscenza dei vari sistemi di comunicazione di massa, della tecnologia delle comunicazioni.

[9] Con questa espressione si intende la capacità ricettiva di un utente, quella di poter trarre profitto dai contenuti dei mezzi di comunicazione di massa.

[10] Si tratta, quindi, di poter creare, almeno a livello di possibilità, innovazioni e sviluppi nel sistema mediatico.

[11] Apparentemente il termine realtà virtuale e i suoi derivati, come in questo caso la relazione virtuale, sembra racchiudere una contraddizione immediata, presentandosi come una sorta di paradosso o di ossimoro. Questa impressione deriva dalla nostra abitudine a considerare il termine virtuale come sinonimo di non reale. Occorre invece chiarire e aver ben presente che, quando usiamo il termine virtuale in espressioni quali realtà virtuale, spazio virtuale o relazione virtuale non intendiamo negare qualunque forma di realtà ai fenomeni di cui stiamo parlando. Al contrario, intendiamo significare che la realtà specifica di questi fenomeni, pur non essendo una realtà fisica, è strutturata sul modello costituito dalla realtà fisica. Così, ad esempio, uno spazio virtuale non è uno spazio fisico, ma è strutturato in modo simile allo spazio fisico.

[12] I motivi di esclusione comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d’istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a diversi gruppi etnici, provenienza geografica. Il divario può essere inteso sia rispetto a un singolo paese tra cittadini dello stesso stato sia a livello globale.

[13] Sul tema si veda F. Occhetta, Per un giornalismo responsabile, La Civiltà Cattolica 3882(2012) pp. 531-636.

[14] Cf. H. Innis, Le tendenze della comunicazione, Sugarco, Milano 1982 e Id., Impero e comunicazione, Meltemi, Roma 2001.