Il pellegrinaggio a Canneto nel racconto di Arturo Marpicati

Nel 1940 sulle pagine del Corriere della Sera viene pubblicato un dettagliato ed interessante racconto sul pellegrinaggio al Santuario di Canneto a firma del Ministro dell’Educazione Nazionale del tempo, lo scrittore e politico Arturo Marpicati (1891-1961) che si recò di persona sul posto. Lo scritto sarà in seguito pubblicato dal Marpicati nel suo volume: Questi nostri occhi. Racconti e ritratti [Società Editrice Internazionale, Torino, 1956], e riproposto nel numero 15 anno XIII del periodico illustrato: Santuario di Canneto. Settefrati.

Per la bellezza del contenuto, dello stile e delle informazioni presenti, ne ripresentiamo parte del contenuto:

   

«D’improvviso, come a un segnale dato, le montagne cominciano a cantare. Sono i pellegrini che s’incamminano all’alta valle di Canneto e vengono dall’Abruzzo, vengono dalla Ciociaria, da Napoli, sin dalla campagna e dai castelli romani.

Le processioni ancora non si scorgono lungo i sentieri remoti che i loro canti rompono dal folto dei boschi e le silenziose lontananze echeggiano mandando voci e preci solenni al cielo. Sono intere borgate e villaggi che si muovono, intere popolazioni rurali che, lasciate le zappa e falce, sprangate porte e finestre, evadono durante alcuni giorni dalle consuete fatiche e migrano verso l’antichissimo eccelso Santuario di Canneto. Il viaggio per i più è lungo, disagevole, su ermi viottoli sassosi ed erte scorciatoie, sotto il rovente sole di mezzo agosto. Ma vanno calmi, sereni, incolonnati: gli uomini e i ragazzi avanti con gli stendardi e le immagini sacre, ognuno con un bordone d’acero o d’agrifoglio nella destra, e con esso s’aiutano e sollecitano anche i pigri somarelli recanti coperte, bisacce ed otri. Le donne vengono in coda e sostengono con elastica grazia, fisse sul cèrcine nel mezzo del capo eretto, grosse ceste colme di viveri. Ci sono vecchi che hanno ricalcato quella via cinquanta sessanta volte, e ora tiran su a stento le ossa stremate per i duri pendii, ma finché han fiato non vogliono mancare ai riti annuali della Madonna miracolosa. Tra le fogge dimesse degli abiti maschili – casacche di fustagno, berretti di velluto e ancora qualche papalina a mantice – spiccano i costumi pittoreschi delle donne, diversi e caratteristici per ogni regione: ampie gonne nere, rosse, blu; camicette rosa e corsetti bianchi ricamati. […]

Ecco la chiesa solitaria, accampata sopra la roccia nel mezzo dell’ameno altopiano di Canneto. Intorno come sentinelle d’onore, la guardano i monti aspri e selvaggi dell’Appennino centrale. Ella sorse dalle rovine di un tempietto romano dedicato alla dea Mefiti, nume materno, deità tutta italica, collocata e qui e venerata forse a deprecare che da un luogo così incantevole, circondato da vergini foreste di faggi dritti e sottili, ricco dell’acqua sorgiva del Melfa e di fine aria odorosa d’erbe alpestri, stessero lontani i miasmi paludi. Il tempio fu anch’esso meta di pellegrinaggi e di riti pagani sino al tempo di San Benedetto; sino a quando cioè il santo Patriarca non spazzò via gli idoli e i culti di Venere e di Apollo, propagando rapidamente da Montecassino il verbo della rivoluzione cristiana alle moltitudini dei paesi vicini. […]

Appena sono in vista del Santuario i devoti pellegrini stringono le file, accelerano il passo e rinforzano gli accenti del canto popolare: Evviva Maria! Nell’ermo Canneto – un popolo lieto – evviva gridò!. Lieti i volti e gli atteggiamenti non sono: anzi la preghiera erompe alta e violenta da bocche dolorose, e gli sguardi sono inteneriti e tristi. È lunga la via – è l’erta affannosa – ma in alto la Rosa – ci attende del Ciel!. A quel canto il lor cuore si riconforta, in quel canto essi effondono e spandono la loro contenta angoscia, in quel canto si liberano di tanti spasimi chiusi e premuti a lungo nel petto. Più ingenuo e pastorale era l’inno trecentesco, che dolcemente rinnovava cadenze e voci del ritmo cassinese, librandosi anche allora sulle sponde chiare del Melfa: Ave vérzene Maria – amorosa virgo pia – ave vérzene beata – tu viola in terra nata – poi fusta salutata – d’ogni grazia fusti piena. La maestosa serena vallata si riempie di salmodianti compagnie, affluenti da tutti i sentieri, da tutte le coste, da tutti i boschi delle montagne. Le schiere numerose fanno tre volte il giro della chiesa: poi inginocchiandosi sul limitare, indi trascinandosi carponi giungono come estatiche innanzi alla statua in legno della Madonna tutta splendente tra ceri e gemme. La Madonna è nera, perché la tradizione vuole che durante un incendio del tempio essa rimanesse intatta tra le fiamme, solo abbrustiandosi e scurendosi il volto. […]

Lo spettacolo di queste oranti moltitudini, la visione di questa fede che par scuotere e muovere sassi e monti, ti riempie l’animo di commozione, e non puoi sorriderne né restare freddo e indifferente. In quella libera comunione primordiale con la divinità, ti senti risvegliare in petto qualcosa come di un tuo smarrito cuore antico e fanciullo, ti senti muover dentro aspirazioni latenti e oscure, vibrare qualche parte profonda e inesplorabile della tua anima. A sera le preghiere si fanno più fioche; la chiesa sempre gremita brulica, bisbiglia, trasuda tutta, e la valle a poco a poco si popola di bivacchi e di fuochi che la rallegrano, rendendola più larga e maestosa. È una scena tra biblica e omerica: pare un gran campo di guerrieri che alfine riposino dopo una giornata di battaglia. Stanchi, affamati, distesi sull’erba e sulle coperte, estraggono le loro provviste casalinghe, pane, salsicce, frittate, peperonate enormi e lentamente mangiano e bevono in silenzio. […] Il giorno dopo, la partenza e l’accompagnamento della Madonna dalla chiesa di Canneto alla cattedrale della vicina borgata di Settefrati offrono momenti e spettacoli forse ancora più mistici e patetici. Le turbe riprendono a implorare. Dal Santuario le processioni si recano alla prossima sorgente del Melfa, o – dicono essi – “capo di acque”. E qui i riti cristiani si confondono con altri remotissimi prettamente pagani, come quell’onorare, quasi un vivente nume, le chiare e fresche e dolci acque spiccianti dalla parete rocciosa, quell’attraversarle per sette volte a piedi nudi, quel raccogliere sassolini brillanti, le stelline, facendo voti e preghiere. […] Nel partire le compagnie camminano lentamente all’indietro, sin che la Madonna e il tempio non scompaiono alla vista. E cantano: Maria di Canneto – noi siamo di partenza – tu dacci la licenza – la santa benedizion! Hanno pensato tutto l’anno a questo viaggio; è anche la loro vacanza estiva; ora l’hanno compiuto, ora hanno confidato finalmente alla Madre di Dio i dolori, le delusioni più nascoste, gli amori più contrastanti, anche gli interessi materiali più importanti. […]

Al calar della sera l’altopiano è silenzioso. Le sorgenti del Melfa si sono fatte azzurre. Per le deserte imboccature delle valli, tra fragili giochi di nubi e alto stormire di selve, dilegua lontanando l’ultimo canto dei pellegrini».

Lucio Meglio  Diapositiva1 (2) canneto

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