Relazione del card. Semeraro tenuta all’Assemblea diocesana

La sinodalità nella vita e nella missione della  Chiesa

 

Di «sinodalità», alla Chiesa italiana Francesco ne parlò ufficialmente per la prima volta all’Assemblea generale della CEI il 20 maggio 2019. Fu questo il primo punto di un intervento articolato su tre punti specifici: Sinodalità e collegialità, la riforma dei processi matrimoniali e il rapporto tra i sacerdoti e i vescovi. Quanto al primo di essi, alle sue orecchie erano giunti di già alcuni «rumori», come disse lo stesso Francesco con un po’ d’ironia: «Sulla sinodalità, anche nel contesto di probabile Sinodo per la Chiesa italiana – ho sentito un “rumore” ultimamente su questo, è arrivato fino a Santa Marta! …».

La frase del Papa e il tono sono importanti per dissipare subito un equivoco: la coincidenza tra «sinodalità» e «sinodo». Su questo avrò modo di tornare. Sta di fatto che il transfert da una realtà all’altra era stato avviato qualche tempo prima su alcuni organi di stampa e, da lì, fu poi amplificato con un certo tambureggiare anche dopo il discorso del Papa. È importante però stare sul termine utilizzato da Francesco che appare alquanto chiaro e chiarificatore del senso del suo intervento: mi riferisco alla parola “rumore”. Linguisticamente sta, infatti, a indicare un suono giudicato non musicale o che comunque risulti sgradevole, fastidioso, molesto o, addirittura, dannoso. Insomma, il contrario di quell’armonia che suscita il “camminare insieme”; proprio perché in grado di combinare voci e strumenti. In quell’occasione il Papa ha appunto indicato “un’armonia” ai vescovi, ossia un “modo” (metodo) di vivere.

Come vedremo successivamente, dopo di allora da parte del Papa sono da registrarsi altri tre interventi pubblici, di cui il più ampio e articolato è inserito nel discorso del 30 aprile 2021 indirizzato ai membri del Consiglio Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, un’associazione pubblica di fedeli laici indicata dal Papa come «palestra di sinodalità». Questo ci permette di individuare nella condizione laicale «un’importante risorsa per la Chiesa italiana, che si sta interrogando su come maturare questo stile in tutti i suoi livelli. Dialogo, discussione, ricerche, ma con lo Spirito Santo».

Prima, però, che entri nei dettagli della mia esposizione, porterei l’attenzione ad una particolare parola usata dal Papa nel suo passaggio, che ho appena citato: si tratta della parola stile! Su di essa mi soffermerò subito nella prima patte del mio intervento, dedicata ad un approccio generale al concetto di sinodalità.[1] Anticipo, anzi, che il secondo punto sarà il richiamo a un importante documento della Commissione Teologica Internazionale del quale sottolineerò alcuni punti specifici, per concludere con delle indicazioni sul «volto» di una Chiesa sinodale.

 

Un approccio al concetto di sinodalità

Diciamo, dunque, subito che facendo ricorso all’aggettivo «sinodale» noi non intendiamo ancora una prassi di convocazione di sinodi, bensì uno stile, un modo di vivere, una forma di esistenza che storicamente esprime una vita interiore, un’energia, anzi una sinergia cui possiamo dare – almeno provvisoriamente – il nome di comunione.[2] Chiameremo, allora, sinodalità la forma esteriore che assume, nella vita della Chiesa e nello stile di un cristiano, il mistero della communio. Prima d’approfondire, però, è opportuno richiamare alcune suggestioni terminologiche.

Alla radice c’è un verbo greco: synodeuo, che vuol dire viaggiare in compagnia, camminare insieme; da esso deriva anche la parola synodos che indica un adunarsi o riunione frutto di un con-venire. A noi, però, interessa considerare principalmente l’uso cristiano del termine.

Se, dunque, consideriamo la letteratura cristiana antica scopriamo che nel suo uso più antico la parola «sinodo» ha un significato personale: indicava, cioè, delle persone. I cristiani, scriveva agli efesini sant’Ignazio d’Antiochia, sono synodoi, ossia coloro che camminano insieme: «Siete tutti compagni di viaggio (synodoi, conviatores), portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo»[3]. Egli, anzi, è il Synodos per eccellenza; per i suoi discepoli Cristo è il vero «compagno di viaggio». In una commovente invocazione conservata negli apocrifi «Atti di Tomaso», leggiamo quest’esortazione: «Credi in Cristo Gesù… Egli ti sarà compagno (synodos) lungo il sentiero pericoloso, ti sarà guida verso il regno suo e di suo Padre, ti condurrà alla vita perpetua e ti darà quella sovranità che non passerà e non cambierà mai»[4]. Tutto questo è molto importante per rendersi subito conto che «sinodo» non è un’azione che si compie, ma è un modo di essere in comunione con Cristo e tra noi. Ossia uno stile!

 

 

 

Sinodo, però, non è solo compagnia; è anche qualcos’altro. San Giovanni Crisostomo ci spiega infatti che synodos è pure rendimento di grazie e sinfonia. Commentando il Salmo 149,1 («Cantate al Signore un cantico nuovo, la sua lode nell’assemblea dei fedeli»”), egli spiegava che ogni lode al Signore, prima ancora delle parole, esige un rendimento di grazie (eucharistian) fatto di buone opere e la condotta di una vita buona. Quanto poi al rendimento di grazie (eucharistein), non bastano le sole parole; occorre, invece, anche unirvi le azioni virtuose. Ecco, dunque, che il termine sinodo ci riconduce nuovamente ad uno stile: uno stile di vita, che, secondo il Crisostomo, è lo stile di una vita eucaristica.[5]

Egli pensava alla celebrazione eucaristica, ma considerava pure che ciascuna di esse, così come ogni lode a Dio, deve sempre essere unita ad altre Eucaristie e ad altre lodi, poiché, come insegna la Scrittura, ogni lode deve essere sinfonica. Bella davvero quest’affermazione! Per questo, proseguiva il Crisostomo, gli inni devono innalzarsi a Dio alla maniera di un coro che forma un concerto. La ragione è ecclesiologica: la Chiesa, infatti, è un corpo dove tutto si tiene (sistema) e il suo nome è sinodo.[6]

Giungiamo così alla citazione che fece Francesco nel famoso discorso del 17 ottobre 2015 quando, celebrandosi i 50 anni dall’istituzione del Sinodo dei Vescovi, disse: «La sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Se capiamo che, come dice san Giovanni Crisostomo, “Chiesa e Sinodo sono sinonimi” – perché la Chiesa non è altro che il “camminare insieme” del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore – capiamo pure che al suo interno nessuno può essere “elevato” al di sopra degli altri. Al contrario, nella Chiesa è necessario che qualcuno “si abbassi” per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino». Anche in questo caso il termine astratto di «sinodalità» rimanda a uno «stile», un modo di essere Chiesa.

Il discorso di Francesco nel 2015 è importante, perché ridiede slancio alla dimensione sinodale nella Chiesa. Riflettendo su tale rilancio, con la data 2 marzo 2018 la Commissione Teologica Internazionale (CTI) pubblicò un corposo documento titolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, cui si potrà accedere come fonte autorevole.[7] Di esso parlerò subito.

È noto, infine, che in data 24 aprile 2021 Francesco ha approvato e posto in atto una nuova modalità di cammino verso la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi convocata sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione». Il percorso sarà articolato in tre fasi:

  • Inaugurazione del cammino sinodale da parte del Santo Padre in Vaticano: il 9-10 ottobre 2021. Con le medesime modalità, la successiva domenica 17 ottobre, il cammino si aprirà nelle diocesi, sotto la presidenza del rispettivo vescovo.
  • Tra il prossimo ottobre 2021 e l’aprile 2022 ci sarà la fase diocesana il cui obiettivo sarà la consultazione del Popolo di Dio affinché il processo sinodale si realizzi nell’ascolto della totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo.
  • Tra il settembre 2022 e il marzo 2023 si terrà la fase continentale con lo scopo di dialogare a livello continentale sul testo di un Instrumentum Laboris, realizzando un ulteriore atto di discernimento alla luce delle particolarità culturali specifiche di ogni continente.
  • Per l’ottobre 2023 è prevista l’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, in vista della quale la Segreteria Generale del Sinodo invierà un secondo Instrumentum Laboris.

 

Il Documento della Commissione Teologica Internazionale

In questo documento sono molto bene integrati i differenti apporti sul tema derivanti dall’esegesi biblica, dalla storia della Chiesa, dalla teologia sistematica e pastorale, dal diritto canonico, dalla teologia spirituale, dalla liturgia, dall’ecumenismo e dalla dottrina sociale della Chiesa. Il tutto è racchiuso in quattro capitoli, preceduti da un’introduzione – che illustra il kairos della sinodalità e richiama i contenuti fondamentali (n. 10) – e con al termine una conclusione, dove si allude alla sinodalità come “lo stile bello, tenero e forte di questa nuova tappa dell’evangelizzazione” (n. 121).

Dal documento desumiamo anzitutto il concetto di sinodalità che, nel contesto ecclesiologico della communio, «indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice» (n. 6).

Sotto il profilo ecclesiologico è utile portare l’attenzione sui capitoli primo e secondo, dove sono richiamati gli elementi fondativi e normativi della Sacra Scrittura e della Tradizione che collocano la figura sinodale nel contesto storico della Rivelazione trasmessa dalla Chiesa (nn. 11-41). In particolare si terrà conto di quanto si legge al n. 48 sulle dimensioni trinitaria e antropologica, cristologica, pneumatologica ed eucaristica del disegno divino di salvezza che si attua nel mistero della Chiesa. Sono, in concreto, l’orizzonte teologico entro cui la sinodalità si è attuata attraverso i secoli.

Altro elemento importante per l’ecclesiologia sottesa a questo documento è la costante articolazione tra le due nozioni di Popolo di Dio e di communio. Nel secondo capitolo, infatti, è tratteggiata una teologia della sinodalità a partire dai suoi fondamenti teologici e in sintonia con il magistero ecclesiologico del Vaticano II, dal quale sono desunti due temi fondamentali: la teologia del Popolo di Dio integrata coi temi della communio e le classiche quattro proprietà della Chiesa (nn. 42-70). Si trovano qui le basi per quanto è spiegato successivamente sotto i profili pastorali e spirituali.

Il terzo capitolo illustra poi le concrete attuazioni della sinodalità tenendo conto dei soggetti, delle strutture, dei processi e degli eventi sinodali. Il quarto capitolo offre da ultimo delle indicazioni per una conversione spirituale e pastorale in vista di una rinnovata sinodalità.

Su queste premesse – e anche al fine di evitare possibili equivoci – il Documento della CTI articola la sinodalità secondo tre ambiti distinti, ma certamente correlati:

  1. anzitutto la sinodalità come stile, che si manifesta nel modo ordinario di vivere e operare della Chiesa;
  2. in secondo luogo la sinodalità designa particolari strutture nei differenti livelli parrocchiale, diocesano, interdiocesano… e relativi processi nei quali si esprime e si traduce la natura sinodale della Chiesa;
  3. da ultimo la sinodalità designa specifici «eventi sinodali in cui la Chiesa è convocata dall’autorità competente e secondo specifiche procedure determinare dalla disciplina ecclesiastica» (n. 70).

Un’ultima annotazione sul Documento della CTI. utile per la riflessione di questo nostro Convegno, riguarda l’asserita circolarità tra «il sensus fidei di cui sono insigniti tutti i fedeli, il discernimento operato ai diversi livelli di realizzazione della sinodalità e l’autorità di chi esercita il ministero pastorale dell’unità e del governo». Tale circolarità descrive la dinamica della sinodalità, promuove la dignità battesimale e la corresponsabilità di tutti, valorizza la presenza dei carismi diffusi nel Popolo di Dio, rispetta lo specifico ministero dei pastori (n. 72).

 

Il volto di una Chiesa sinodale

Prima di abbozzare il volto di una Chiesa-sinodale ritengo importanti alcune premesse e come prima il dovere di gratitudine al Concilio Vaticano II, che non soltanto ci ha riaperto la porta e ci ha lasciato il modello della sinodalità, ma ne ha pure seminato i germi a tutti i livelli della Chiesa. Scrisse bene mons. J. Doré, oggi arcivescovo emerito di Strasburgo: «Non più parrocchie, e nemmeno diocesi, senza consiglio pastorale… Non più nazioni senza conferenza episcopale… La figura “monarchica”, essenziale nella ecclesiologia cattolica (un parroco per parrocchia, un vescovo per diocesi, un papa nella chiesa universale), non è stata certo rinnegata; ma è stata felicemente completata ed equilibrata da questa sinodalità che apporta a tutti i livelli un reale arricchimento… Si può pensare che, già ampiamente avviato, questo processo sia irreversibile. Il Vaticano II avrà in tal modo contribuito al passaggio da una chiesa che riunisce concili a una chiesa che vive conciliarmente. Non è, in fondo, questa, la più bella eredità che il concilio poteva prepararci? E il più bell’omaggio da rendergli non è, riconoscendo questo progresso, di permettergli di continuare?».[8]

Ciò premesso, in linea col Documento della CTI e con la mens di Francesco, disponendomi a concludere delineando il volto di una Chiesa-sinodale, tornerei a ricordare quel che ho già detto più volte, ossia che la sinodalità è uno stile! Piaccia, o non, questo vuol dire che la sinodalità non comporta in primo luogo la convocazione di sinodi!

Non è che abbia una particolare idiosincrasia, o avversione nei confronti dei sinodi. Direi, piuttosto, il contrario, avendovi se non altro dedicato appropriati studi e interventi,[9] ed anche per essere stato direttamente coinvolto in lavori sinodali: quale Vicario Episcopale per il Sinodo nella mia Diocesi di origine negli anni ’90 e, successivamente alla chiamata all’episcopato, quale Segretario speciale nella X Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2001). Ciò che in ogni caso intendo sottolineare è che se la celebrazione di un Sinodo (diocesano, provinciale, regionale, o altro che sia) non è, almeno in prima battuta, espressione d’una vita sinodale e di stili sinodali già avviati, molto difficilmente riuscirà a promuoverli… È questa è la mia personale convinzione! Ritengo, dunque, importante sottolineare che

  1. nella vita di una comunità cristiana (diocesana, parrocchiale) si avviino pratiche sinodali nelle quali si sperimenti davvero l’arte del consigliare, cominciando col tenere in grande considerazione il fatto che il consiglio è anzitutto un dono dello Spirito. Su questo punto san Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un insegnamento prezioso, specialmente laddove spiega il rapporto esistente tra il dono del consiglio, mediante il quale lo Spirito istruisce e guida il cristiano nelle sue scelte, e la virtù della prudenza, che egli – seguendo una tradizione antichissima – riconosce come auriga virtutum.[10] Si tratta, in realtà del dono del discernimento, che san Tommaso considera incluso nella virtù della prudenza. Accade, dunque, che posto sotto la mozione dello Spirito Santo, l’uomo diventa non soltanto capace di guidare se stesso, ma anche di guidare gli altri. Perciò, se la virtù della prudenza è richiesta in particolar modo per quanti hanno la responsabilità di guidare altre persone (“prudenza regale” o “politica”, in quanto ordinata al bene comune), anche il dono del consiglio è ugualmente necessario (lo è, anzi, in modo tutto speciale), per chi nella Chiesa svolge un ministero di guida. Esso, per di più, secondo san Tommaso deve essere orientato alla beatitudine evangelica della misericordia. Così inteso, il dono del consiglio diventa il dono con il quale lo Spirito anima la «carità pastorale».[11]
  2. Altrettando importante è sottolineare che la sinodalità in sé non riguarda immediatamente il fatto di prendere delle decisioni! Trovare un accordo e giungere a delle decisioni – anche se con maggioranza – non è (almeno ancora) la sinodalità. Possono esservi delle scelte fatte «a maggioranza», che però non esprimono un con-venire (un percorso compiuto insieme), bensì solo una «convenzione» (politica, economica…): queste scelte non sempre sono un con-ventus, ma diventano spesso una «conventicola»! Nel suo discorso all’Azione Cattolica Italiana del 30 aprile 2021 Francesco ha detto chiaramente: «Dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società… È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante. La Chiesa del dialogo è una Chiesa sinodale, che si pone insieme in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra. In genere, anche i peccatori sono i poveri della terra. In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, una decisione pastorale da prendere, ma anzitutto uno stile da incarnare».[12]
  3. Nel contesto della differenza tra un «parlamento» e un «sinodo», si aggiungerà che nella vita della Chiesa non esiste, di per sé, un «diritto della maggioranza» bensì unicamente un «diritto della comunione»[13] ed è per questo che la pratica sinodale e conciliare della Chiesa ha sempre cercato (e cerca, come si è veduto anche nel Vaticano II con l’opera di Paolo VI) il consenso unanime. L’unanimità stessa, peraltro, non sarebbe ecclesiale se emergesse unicamente da una somma di suffragi. Vi sono, anzi, dei casi in cui dovere di chi porta la responsabilità della comunità (vescovo, parroco…) è, piuttosto, quello di proteggere una «minoranza»; né sono pochi i casi in cui una minoranza si mostra più saggia di una maggioranza.[14] L’unanimità è, invece, ecclesiale solo quando esprime un discernimento cresciuto attraverso l’apporto dei carismi di tutti e dove ciascuno vive con serietà la propria vocazione cristiana. Tutto questo ha valore perché la sinodalità non è un «fatto», ma un processo vissuto nella faticosa tensione tra il «procedere» (-odos) e il vivere, o stare «insieme» (-syn). Occorre, pertanto, avere sempre presenti le ragioni del vivere insieme nella Chiesa, ossia il valore della communio. In ogni comunità, pertanto, ci si dovrebbe (almeno di tanto in tanto) domandare: quali sono i motivi per cui io sono in questa comunità? Quali sono le ragioni che mi ci conservano, nonostante la tentazione non rara di allontanarmi, di andare via, di starmene per i fatti miei? E fra queste, quali sono le ragioni più forti? In fin dei conti le ragioni si dovrebbero cercare e trovare lì dove sono davvero: ossia nel Battesimo e nella testimonianza cristiana (martyria)! È pertanto necessario che ci sia un’accoglienza convinta e «non-finta» di queste ragioni e di questi scopi, i quali debbono convertirsi – ossia fatti confluire – in carità e speranza. La sinodalità è cammino, come ricordato. Per questo ritengo molto utile avere presente quanto ha scritto Francesco in Evangelii gaudium 223: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».[15]
  4. Trattandosi, allora, di un cammino è doveroso segnalare le due direzioni della sinodalità. Francesco le indicò subito nel suo discorso alla CEI del 20 maggio 2019, da cui siamo partiti nella nostra riflessione. Lì, parlando della sinodalità, il Papa distinse chiaramente una sinodalità dal basso in alto e una sinodalità dall’alto in basso. Quanto alla prima Francesco richiamò il dovere di «curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento dei laici…». Su questo, tuttavia, sarebbe utile ricordare che «l’ascolto dal basso non è un’immagine sociologica, ma esistenziale, antropologica. Non deve essere intesa in contrasto con “l’ascolto dall’alto”. Si tratta invece di tornare allo spirito del Vaticano II… non dimentichiamo che i Consigli pastorali sono frutto del Concilio».[16] Ed appunto, riguardo alla sinodalità dall’alto in basso il Papa fece rimando al suo discorso alla Chiesa italiana nel V Convegno Nazionale a Firenze il 10 novembre 2015: un intervento al quale Francesco attribuisce una funzione «odegetica»; ossia, come disse egli stesso: «deve accompagnarci in questo cammino». Ecco, allora, che, rivolto ai partecipanti all’Incontro promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale della Conferenza Episcopale Italiana del 30 gennaio 2021, Francesco tornò a dire: «Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi … Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo».[17] Queste, in conclusione, le due direzioni: dall’alto, ossia un principio direttivo, che cioè guida e accompagna un processo da farsi «comunità per comunità, diocesi per diocesi», cioè dal basso. Un più chiaro riferimento alla duplice direzione si trova ancora nel discorso di Francesco il 30 aprile 2021 all’Azione Cattolica Italiana: «Il cammino sinodale, che incomincerà da ogni comunità cristiana, dal basso, dal basso, dal basso fino all’alto. E la luce, dall’alto al basso, sarà il Convegno di Firenze». Il dall’alto di cui parla il Papa, dunque, non è anzitutto un Sinodo nazionale, che completerebbe ciò che si farebbe in sinodi locali, bensì in primo luogo una illuminazione, un principio ispirativo che egli individua nel suo discorso al Convegno di Firenze e, in definitiva, in Evangelii gaudium che è il suo programma di pontificato.[18] Anche quando il 24 maggio scorso si è rivolto alla 74ma Assemblea Generale della CEI, ha ripetuto che il processo sinodale «deve cominciare dal basso in alto, nelle piccole comunità, nelle parrocchie. Un processo che richiederà pazienza e lavoro, far parlare la gente, e che “esca la saggezza del popolo di Dio”».[19] Non è difficile capire che il Papa si riferisce a un processo capillare da attuarsi dalle diverse Chiese particolari con le proprie comunità parrocchiali nei luoghi propri e principali per l’ascolto e il discernimento, ossia i «consigli».
  5. All’Azione Cattolica Italiana Francesco dirà: «Una Chiesa del dialogo è una Chiesa sinodale, che si pone insieme in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra». La sinodalità dal basso richiederà, pertanto un reale processo di discernimento in comune.[20] Di cosa si tratta nelle Chiese d’Italia lo si dovrebbe sapere da anni, perché se ne parlò approfonditamente nel terzo Convegno ecclesiale nazionale di Palermo nel 1995 (quasi trent’anni or sono!). Ma cosa vuol dire? Etimologicamente «discernere» vuol dire separare, distinguere una cosa da un’altra; il discernimento aiuta, perciò, a non fare confusioni, a non prendere abbagli… «Cernita» è anche selezione, separazione del vero dal falso, dell’utile dall’inutile… Discernimento, conseguentemente, è, nel nostro caso, anche capacità di valutare i termini di una questione in modo da operare scelte corrette e opportune. In quanto, poi, «comunitario» il discernimento di cui si parla è da intendersi come una «espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale». Così lo descriveva la Nota pastorale CEI conseguente al Convegno di Palermo, che prosegue: «Perché esso sia autentico, deve comprendere i seguenti elementi: docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva. Così inteso, il discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per sviluppare l’amore reciproco, la corresponsabilità, l’inserimento nel mondo a cominciare dal proprio territorio. Edifica la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una figura, che senza deviare in impropri democraticismi e sociologismi, risulta credibile nella odierna società democratica. Si tratta di una prassi da diffondere a livello di gruppi, comunità educative, famiglie religiose, parrocchie, zone pastorali, diocesi e anche a più largo raggio».[21]
  6. Implicito nel discernimento in comune è l’ascolto. Incontrando alcuni giovani della Diocesi di Grenoble-Vienne (Francia) il 17 settembre 2018, papa Francesco ne parlò come di un apostolato dell’orecchio: «Prima di parlare, ascoltare. L’apostolato “dell’orecchio”: sentire, ascoltare. “E poi, padre, parlare?”. No, fermati. Prima di parlare, fare. Una volta, un giovane universitario mi ha fatto questa domanda: “Io nell’università ho tanti amici che sono agnostici, cosa devo dirgli perché diventino cristiani?”. Io ho detto: l’ultima cosa che tu devi fare è dire delle cose. L’ultima. Prima devi fare, e lui vedrà come tu gestisci la vita. Sarà lui a domandarti: “Perché fai questo?”. E allora lì puoi parlare. La testimonianza prima della parola. Questa è la cornice del messaggio cristiano. Ecouter, faire, e poi dire, parlare». Dobbiamo ammettere che oggi questa dell’ascoltare è purtroppo un’arte perduta; eppure essa è di grande importanza non soltanto per la vita personale, ma anche per quella sociale. Lo è anche nella nostra vita spirituale e comunitaria, se ascoltare non è un semplice sentire con le orecchie. Ascoltare è recettività dell’altro, è disponibilità a mettersi in sintonia con quanto di lui si è in grado d’intendere. Ascoltare è, in ultima analisi, essere «ospitali», un po’ come il discepolo amato da Gesù che, dopo avere ascoltato la sua parola dalla Croce, accolse con sé la Madre di Gesù (cf. Gv 19, 27). Proprio questo è lo stile di cui ha bisogno la sinodalità: accogliente e ospitale, come fu lo stile di Gesù. Troviamo qui il primo percorso da fare per essere «Chiesa sinodale» e – come nel 2919 disse il Papa ai vescovi italiani – per muoversi «sul sicuro, non sulle idee». «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare». Francesco lo disse nel suo primo intervento sulla sinodalità il 17 ottobre 2015.

Il modello cui guarda Francesco è la giovane Chiesa di Gerusalemme che riunita trova una risposta agli iniziali domande e alle prime concrete difficoltà. Si tratta di quello che la tradizione ha chiamato concilio apostolico di Gerusalemme (cf. At 15; Gal 2,1-10) dove, come scrive il Documento della CTI «si può riconoscere il prodursi di un evento sinodale in cui la Chiesa apostolica, in un momento decisivo del suo cammino, vive la sua vocazione alla luce della presenza del Signore risorto in vista della missione. Questo evento, lungo i secoli, sarà interpretato come la figura paradigmatica dei Sinodi celebrati dalla Chiesa» (n. 20).

In fin dei conti è proprio a questo spazio generativo della vita della Chiesa (l’evento di Gerusalemme, infatti, poiché collocato nella vita della Chiesa nascente non è affatto assimilabile ai sinodi e ai concili succedutisi poi nello svolgersi nel tempo), che rimandano le sollecitazioni rivolte da Francesco alle Chiese in Italia.

 

Per una «messa a terra»

Quanto ad esse ritengo si debba onestamente riconoscere che un’esperienza di sinodalità la Chiesa locale italiana l’ha sperimentata negli anni passati sino ad oggi, specialmente nella prassi ormai quasi cinquantennale dei Convegni ecclesiali nazionali, abitualmente collegati ad un «piano pastorale».[22] Al riguardo, vale senz’altro la pena di risentire la voce del Card. A. Ballestrero, all’epoca presidente della CEI, in occasione del Convegno di Loreto del 1985 e per il quale oggi è avviata la fase diocesana per il processo di beatificazione e canonizzazione (N.O. della Santa Sede, 3 dicembre 2014). Chi ha vissuto quegli anni ricorderà che non fu un Convegno facile! Chiudendone, tuttavia, i lavori, con uno sguardo retrospettivo e al tempo stesso lungimirante Ballestrero disse: «Il Convegno ha rivelato uno stile di vita ecclesiale. Perché non dirci allora che convenire tutti insieme è stile di vita ecclesiale e che questi Convegni vogliamo viverli non soltanto come circostanze propizie per dir qualcosa e fare qualcosa, ma come dimensioni essenziali della vita della Chiesa? Una comunità che non si incontra non è comunità. Perciò io dico che la Chiesa italiana sta imparando a convenire, a riunirsi a Convegno. Sono molti i modi di convenire. Ce ne sono alcuni solenni, vorrei dire storici: sono i grandi Concili della Chiesa. Poi ci sono i Sinodi, come ci sono pure incontri richiesti dalle varie istanze delle Chiese locali. Ma anche il convenire in questo modo, in cui la dimensione di popolo, la dimensione plenaria ed organica della comunità emerge e si esplicita, è una acquisizione che arricchisce l’esperienza di Chiesa. Non sono autorizzato a fare il profeta, ma mi pare che sulla strada dei Convegni faremo ancora del cammino».[23]

Analogo convincimento a proposito dei medesimi Convegni nazionali italiani lo espresse più di recente, sebbene con differenti sfumature, il p. B. Sorge S. J. riconoscendo in essi «una forma originale di incontro ecclesiale, intermedia tra i Convegni di studio e il Sinodo».[24] Pensando, però, forse ad Heidegger, lo stesso p. Sorge parlò pure di cammini interrotti, lasciando così a intendere ciò che a suo parere mancò a quelle iniziative.

Anzitutto (per ricorrere alla terminologia bergogliana) a quei Convegni sarebbe mancato un sufficiente e adeguato movimento dal basso verso l’alto. Scrive difatti: «Si deve constatare che nei successivi quattro Convegni ecclesiali i laici non svolsero più quel ruolo di corresponsabilità che tanto proficuamente avevano esercitato durante il Convegno del 1976 applicando lo stile del «con-venire». Da Loreto a Firenze, i Convegni che seguirono furono visti piuttosto come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – «occupando il posto che gli compete per istituzione divina» –, il programma pastorale per il successivo decennio, elaborato dalla Cei».[25]

D’altro canto, per un completamento del cammino, a quei Convegni è mancato il carattere normativo, ossia il movimento dall’alto verso il basso. Aggiungeva, infatti, p. Sorge: «il Sinodo ha una sua propria autorità teologica e disciplinare, e le sue conclusioni, regolarmente votate e approvate, assumono un valore vincolante. Ciò, invece, non accade con i Convegni ecclesiali, i quali hanno valore puramente consultivo, né prevedono votazioni o approvazione di documenti finali. Le loro conclusioni sono unicamente indicative e servono soprattutto a cogliere gli orientamenti e le tensioni che fermentano nella base ecclesiale. Non essendo né Incontri di studio, né un Sinodo, i Convegni ecclesiali hanno, tuttavia, una loro finalità specifica: quella di avviare nella Chiesa processi concreti di cambiamento di mentalità, di strutture e di vita».[26]

Le due affermazioni del p. Sorge appena richiamate hanno nella sostanza una loro verità, ma non andrebbero dimenticate alcune precisazioni, particolarmente circa l’affermazione che i Convegni ecclesiali «hanno valore puramente consultivo, né prevedono votazioni o approvazione di documenti finali». Si dovrà tenere conto, difatti, che dopo ciascun Convegno la Conferenza Episcopale Italiana ha prodotto dei documenti abitualmente qualificati come «pastorali». La domanda, pertanto, dovrebbe fondamentalmente riguardare la loro «qualificazione teologica» e ciò lo si dovrà fare anche in rapporto alla dottrina circa la natura teologica e giuridica delle Conferenze Episcopali. Al riguardo, è noto che in data 21 maggio 1998 Giovanni Paolo II pubblicò una lettera apostolica proprio su questo tema col titolo Apostolos Suos dove sono incluse anche le norme finali sulle condizioni «perché le dichiarazioni dottrinali della Conferenza dei Vescovi … costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate a nome della Conferenza stessa».

Non è questo il luogo per affrontare e riprendere tale questione; è vero, in ogni caso, che essa rimanda a un dato fondamentale circa la struttura gerarchico-carismatica della Chiesa (cf. Lumen gentium, n. 4). Nella direzione dall’alto verso il basso che Francesco assegna al cammino sinodale questo è qualificante. Nella sua Lettera del 29 giugno 2019 al popolo di Dio che è in cammino in Germania Francesco lo scrive esplicitamente: «Nella recente assemblea plenaria dei Vescovi italiani ho avuto l’opportunità di ribadire tale realtà centrale per la vita della Chiesa apportando la duplice prospettiva che questa opera: “sinodalità dal basso in alto, ossia il dover curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento dei laici… (cfr. ccc 469-494), incominciare dalle diocesi: non si può fare un grande sinodo senza andare alla base…; e poi la sinodalità dall’alto in basso”, che permette di vivere in modo specifico e singolare la dimensione collegiale del ministero episcopale e dell’essere ecclesiale. Solo così possiamo raggiungere e prendere decisioni su questioni essenziali per la fede e la vita della Chiesa» (n. 3).

Io penso che gli ecclesiologi avrebbero del lavoro da compiere nell’approfondimento di questo punto. Non sarà possibile, ad esempio, continuare a ignorare ciò che lo stesso Francesco scrisse in Evangelii Gaudium riguardo allo statuto teologico delle Conferenze Episcopali: «Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (n. 32). Neppure si trascurerà il posto rilevante che l’insegnamento delle stesse occupa nel magistero di Francesco già nella sua prima esortazione apostolica. [27]

La esplicitazione auspicata da Francesco potrebbe aiutare a comprendere che la celebrazione di un «sinodo nazionale» non è affatto l’unica via per l’attuazione di un processo sinodale dall’alto. Credo pure, tuttavia, che la vera questione stia nel sapiente equilibrio, nella corretta distinzione e nella reciproca integrazione dei due movimenti indicati dal Papa, escludendo che l’uno (n.b.: ma per quale dei due c’è il vero rischio?) prevarichi sull’altro. Allo stato attuale c’è il percorso tracciato per la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi con le sue successive fasi dall’ottobre 2021 all’ottobre 2023: un percorso che anche la Chiesa italiana si dispone a fare.

Nell’Assemblea generale del maggio 2021, infatti, i Vescovi italiani hanno unanimemente approvato una mozione, che prevede per i prossimi anni di realizzare un cammino sinodale secondo le prospettive indicate in più riprese da Papa Francesco. I Vescovi italiani concordano sul fatto che non ci si dovrà limitare a realizzare, o celebrare un evento: si vuole, invece, compiere un vero e proprio cammino comunitario per ricollocare la comunità cristiana nel tempo presente. Ogni singola comunità diocesana sarà quindi impegnata ad ascoltare se stessa e quanti potranno offrirle un contributo nel discernere la realtà in cui è immersa; più in profondità, si tratterà di cogliere cosa lo Spirito dice alle nostre Chiese. Questo processo, come ho già detto, in Italia non parte dal «nulla», ma fa parte integrante di quello stile ecclesiale che è fiorito dal Concilio.

Condizione è l’essere tutti consapevoli che questo «sarà effettivamente possibile se ci decideremo a camminare insieme con pazienza, unzione e con l’umile e sana convinzione che non potremo mai rispondere contemporaneamente a tutte le domande e i problemi. La Chiesa è e sarà sempre pellegrina nella storia, portatrice di un tesoro in vasi di creta (cfr. 2Cor 4,7). Ciò ci ricorda che non sarà mai perfetta in questo mondo e che la sua vitalità e la sua bellezza stanno nel tesoro del quale è costitutivamente portatrice».[28]

 

+ Marcello Card. Semeraro

 

[1] Per una visione generale, cf. M. Semeraro, voce «Sinodalità», in Aa. Vv. (a cura di), Nuovo Dizionario Teologico Interdisciplinare, EDB, Bologna 2020, 653-658. Per un approfondimento sul tema, tra le pubblicazioni più recenti cf. N. Sala (a cura di), La sinodalità al tempo di papa Francesco. 1. Una chiave di lettura storico-dogmatica, EDB, Bologna 2020; F. Asti, E. Cibelli (a cura di), La Sinodalità al tempo di papa Francesco. 2 Una chiave di lettura sistematica e pastorale, EDB, Bologna 2021; U. Sartorio, Sinodalità. Verso un nuovo stile di Chiesa, Ancora, Milano 2021.

[2] Quello di «stile» è un concetto molto complesso e multiforme, legato ad ambiti particolari della cultura di un popolo. Cf. le voci «Stile» (curate da S. Mati e A. Antonietti) e «Stile formativo» (curata da A. Kaiser) in Enciclopedia Filosofica, vol. XI, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate – Bompiani, Milano 2006, 11090-11094; 11094-11096. Il concetto è passato anche in teologia, cf. Cf. in tr. it. i saggi presenti in Ch. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella post modernità, 2 voll., EDB, Bologna 2009. Per un primo approccio, cf. Ch. Theobald, «Il cristianesimo come stile», ne Il Regno – attualità, 2007/14, 491-501.

[3] Cf. Ad Eph. 9, 2: PG 5, 652.

[4] Acta Thomae, 103: cf. L. Moraldi (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento. II. Atti degli Apostoli, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1994, 1308.

[5] Cf. M. Semeraro, «Glosse sulla sinodalità», ne L’Osservatore Romano dell’11 marzo 2016, 4.

[6] Ekklesia gar systematos kai synodou estin onoma: Giovanni Crisostomo, Expos. in Ps. 149, 1: PG 55, 493.

[7] Per un’introduzione a questo documento cf. P. Coda – R. Repole (a cura di), La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa. Commento a più voci al Documento della Commissione teologica internazionale, EDB, Bologna 2019. Con più ampio sguardo, cf. G. Calabrese, Ecclesiologia sinodale. Punti fermi e questioni aperte, EDB, Bologna 2021.

[8] J. Doré, Il Vaticano oggi, in «Concilium» XLI/ 4 (2005), 187-188.

[9] Cf. Semeraro, voce «Sinodalità» cit.; cf pure di M. Semeraro, voce «Sinodo», in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Piemme, Casale Monferrato 1993, 960-961; «Il Sinodo diocesano in una ecclesiologia di comunione», in Rivista di Scienze Religiose 12 (1998), 15-36; «Discernimento e Chiesa sinodale», ne Il Regno – documenti, 15/2017, 460-469.

[10] San Tommaso include nella virtù della prudenza il dono del discernimento; cf. M. Semeraro, Prefazione a M. Chiodi (a cura di), Discernimento e Phronesis. Tradizione spirituale, Scrittura e teoria morale, Glossa, Milano 2021, XI-XXI.

[11] Cf. I. Biffi, «Richiami alla riflessione di san Tommaso d’Aquino sulla prudenza», in Communio n. 156 (nov.-dic. 1997), 32-44. Opportune riflessioni, alla luce del pensiero tommasiano, sono espresse da C. M. Martini, «Il consigliare nella Chiesa», in Consigliare nella Chiesa. Norme per gli organismi di partecipazione della diocesi di Milano, Centro ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Milano 1991, 13-19.

[12] Introducendo, il 5 ottobre 2015, il Sinodo per la Famiglia, Francesco disse chiaramente: «Vorrei ricordare che il Sinodo non è un convegno o un “parlatorio”, non è un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo. Il Sinodo, invece, è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita. Il Sinodo si muove necessariamente nel seno della Chiesa e dentro il Santo Popolo di Dio di cui noi facciamo parte in qualità di pastori, ossia servitori. Il Sinodo inoltre è uno spazio protetto ove la Chiesa sperimenta l’azione dello Spirito Santo». Successivamente, parlando il 2 settembre 2019 ai Vescovi del Sinodo della Chiesa cattolica greco-ucraina Francesco aveva ripetuto: «C’è un pericolo: credere, oggi, che fare cammino sinodale o avere un atteggiamento di sinodalità voglia dire fare un’inchiesta di opinioni, cosa pensa questo, questo, questo…, e poi fare un incontro, mettersi d’accordo… No, il Sinodo non è un Parlamento! Si devono dire le cose, discutere come si fa normalmente, ma non è un Parlamento. Sinodo non è un mettersi d’accordo come nella politica: io ti do questo, tu mi dai questo. No. Sinodo non è fare inchieste sociologiche, come qualcuno crede: “Vediamo, chiediamo a un gruppo di laici che faccia un’ inchiesta, se dobbiamo cambiare questo, questo, questo…”. Voi certo dovete sapere cosa pensano i vostri laici, ma non è un’inchiesta, è un’altra cosa. Se non c’è lo Spirito Santo, non c’è Sinodo. Se non è presente lo Spirito Santo, non c’è sinodalità. Anzi, se non c’è la Chiesa, l’identità della Chiesa».

[13] Lo jus communionis fu così enunciato da san Cipriano: neminem iudicantes, ut a iure communionis aliquem si diversum senserit, amoventes (Epist. ad Jovinianum eiusque episcopos: PL 3, 1085). Ad esso si appella ripetutamente sant’Agostino nel De baptismo: da qui citiamo solo un testo: «… per quae mihi etiam tunc liceret salvo iure communionis diversa sentire, unitate quidem praelata adque laudata…», De baptismo, 6, 7, 10: PL 43, 302. Su questo, cf. G. Fidelibus, «Jus communionis ed umanità universale: contributi di pensiero dalla polemica agostiniana contra Donatistas», in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 103, 3(2011) 345-362.

[14] Su questa linea è il principio benedettino per l’elezione dell’abate, cf. Regula 64, 1. Altrove si dice esplicitamente che una maggioranza può esprimere un consiglio stolto. Nella vita della Chiesa, oltretutto, è sempre stato affermato il principio che occorre seguire non il giudizio della maior pars, bensì quello della sanior pars. Cf. ad esempio, Bernardo di Chiaravalle, Epist. 125, 2: PL 182, 270: «Merito autem illum recipit Ecclesia, cuius et opinio clarior, et electio sanior inventa est, nimirum eligentium et numero vincens, et merito».

[15] Sarebbe interessante fare una rapida ricognizione delle ricorrenze in quell’esortazione apostolica della parola «processo». Ad esempio, laddove chiede di «adottare i processi possibili e la strada lunga» (n. 225); oppure avverte che «l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti» (n. 31); oppure nel lungo n. 82 dedicato all’accidia pastorale. Su questo tema particolare rinvio a M. Semeraro, Ascoltare e curare il cuore. Il discernimento nella vita dei pastori della Chiesa. Prefazione di Papa Francesco, LEV, Città del Vaticano 2019, 15-92.

[16] V. Corrado, «Intervista» su Toscana Oggi / In cammino del 1 agosto 2021, VII.

[17] Si potrà notare che in questo discorso il Papa usò l’espressione «Sinodo nazionale», ma ritengo (con base sicura) che con ciò Francesco non intendeva affatto un «evento», bensì – proprio come egli stesso disse, ma non seguendo un testo già scritto – un «processo/strada da fare» nel contesto delle Chiese d’Italia.

[18] La formula dall’alto non ha ovviamente, questo solo significato. Come cercherò di dire più avanti, esso include anche un atto ufficiale dal carattere magisteriale proprio dei pastori, ossia dei singoli vescovi e del corpo episcopale in unione col Successore di Pietro. Si vedrà per questo il cap. III del documento della CTI, dove sì tratta della «attuazione concreta della sinodalità ai vari livelli, nella Chiesa particolare, nella comunione tra le Chiese particolari in una regione, nella Chiesa universale» (n. 8; cf. n. 71).

[19] «In questo percorso sinodale a cui Papa Francesco ha esortato la Chiesa italiana è centrale riprendere le linee tracciate al convegno di Firenze del 2015, “un patrimonio” che deve “illuminare questo momento”» (Fonte: Vatican News del 24 maggio 2021, 18:30)

[20] Spesso si parla di discernimento comunitario. Più appropriato, però, è parlare di discernimento in comune supponendo che il discernimento è sempre un atto personale. Nel discernimento «comunitario» accade che più soggetti, mediante un adeguato dialogo e specifico convenire, mettono in comune il frutto del loro personale discernimento. Per un approfondimento e l’indicazione di questa metodologia, cf. M. I. Rupnik, Il discernimento. I. Verso il gusto di Dio. II. Come rimanere con Cristo, Lipa, Roma 2014, 235-241. Mi permetto rinviare pure a M. Semeraro, I consigli parrocchiali in una chiesa sinodale, MitherThev, Albano Laziale 2017.

[21] CEI, Nota Pastorale Con il dono della carità dentro la storia. 26 maggio 1996, n. 21.

[22] Una ricostruzione storico-pastorale è stata proposta dal Card. G. Bassetti nell’Introduzione alla 74ª Assemblea Generale della CEI, il 25 maggio 2021, https://www.chiesacattolica.it/card-bassetti-un-ascolto-riconciliato-per-un-cammino-insieme/. Cf. anche F. Bonini, Chiesa Cattolica e Italia contemporanea. I Convegni ecclesiali (1976-2015), Studium, Roma 2020.

[23] «Commiato del Cardinale Presidente» 3-4, in Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana n. 4, 22 aprile 1985, 122. Il medesimo testo fu riproposto dal Card. G. Bassetti, presidente della CEI, il 3 febbraio 2021 su https://www.ceinews.it/rilanci/2021/2/3/card-bassetti-un-cammino-di-comunita/.

[24] Sorge S. J., «Un “probabile sinodo della Chiesa italiana?» cit., 456, dove pure spiega: «Ovviamente, i Convegni ecclesiali non sono finalizzati alla ricerca accademica, com’è proprio invece dei Convegni di studio, sebbene gli uni e gli altri si propongano sempre un tema centrale da affrontare. D’altro lato, i Convegni ecclesiali non sono neppure un Sinodo, sebbene usino criteri analoghi per garantire la rappresentanza di tutte le componenti».

[25] Sorge S. J., «Un “probabile sinodo della Chiesa italiana?» cit., 453. L’affermazione – che andrebbe soprattutto criticamente contestualizzata – contrappone la prassi successiva a quella seguita per il I Convegno del 1976, dove il p. Sorge fu protagonista (cf. p. 450 nota 4).

[26] Sorge S. J., «Un “probabile sinodo della Chiesa italiana?» cit., 456-457.

[27] Ciò considerato, sotto il profilo ecclesiologico mi paiono meritevoli di ulteriori approfondimenti le questioni poste a suo tempo dal p. A. Antón S. J., di cui cito solo: «Sinodo e collegialità extraconciliare dei vescovi», in V. Fagiolo, G. Concetti (a cura di), La collegialità episcopale per il futuro della Chiesa. Dalla prima alla seconda assemblea del Sinodo dei vescovi, Vallecchi, Firenze 1969, 62-78; Primado y colegialidad. Sus relaciones a la luz del primer Sínodo extraordinario, B.A.C., Madrid 1970; «Lo statuto teologico delle conferenze episcopali», in H. Legrand, J. Manzanares, A. Garcia y Garcia (a cura di), Natura e futuro delle Conferenze Episcopali. Atti del Colloquio internazionale dí Salamanca, (3-8 gennaio 1988), EDB, Bologna 1988, 201-251; Conferencias episcopales ¿instancias intermedias? El estado teológico de la cuestión, Sigueme, Salamanca 1989 (tr. it. Le conferenze episcopali. Istanze intermedie? Lo stato teologico della questione, San Paolo, Cinisello Balsamo 1992); «Strutture sinodali dopo il concilio. Sinodo dei vescovi – Conferenze episcopali» in Credere Oggi n. 76 (4/1993), 85-105 «Ministerio petrino” y/o “Papado” en el dialogo con las otras Iglesias cristianas: algunos puntos de convergencia y divergencia», ne Il Primato del Successore di Pietro. Atti del Simposio Teologico (Roma novembre 1996), LEV, Città del Vaticano 1998, 386-453. Per una discussione sulle tesi del p. Antón, cf. G. Mucci, «Conferenze episcopali, diritto divino e diritto ecclesiastico», ne La Civiltà Cattolica 1989 II 222-230 | 3333 (6 maggio 1989); cf. pure V. Mignozzi, Ecclesiologia, EDB, Bologna 2019, 303-306.

[28] Francesco, Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, n. 3 che conclude: «Gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono, affinché ne possa derivare un sano aggiornamento, “una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni”. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come Popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati».

Categorie: Diocesi,Documenti