Omelia per la celebrazione ecumenica (Gaeta, 21 gennaio 2014): “Cristo non può essere diviso”

L’ascolto condiviso della Parola del Signore celebra la nostra fede in Lui, il Vivente, il Signore della nostra storia, “il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti”(Col 1,18) .

Carissimi, è motivo di sincera gioia e di profonda gratitudine al Signore, sempre imprevedibile nella sua inafferrabile creatività, celebrare insieme la preghiera dei figli di Dio e dei discepoli di Gesù Cristo. Il mio invito è pressante: lasciamoci sorprendere dal soffio dello Spirito, lasciamoci guidare dai desideri di Dio, prevalga la forza del suo Amore sui nostri umani sentimenti, affetti e sospetti; la sua Parola pieghi le nostre rigidità e sciolga le sterili resistenze alla sua volontà.
La preghiera penitenziale di questa sera denuncia le nostre laceranti divisioni, che Dio non può approvare; e non può accettare i compromessi di una Chiesa, il suo Corpo, rassegnata ad annunciare la Parola nel contro-segno della frantumazione e della disgregazione. Tutto questo per noi è motivo non solo di rammarico, ma anche di una revisione di vita, capace di farci crescere in un impegno più concreto per la nostra conversione all’unità, e per il bene inestimabile della comunione.

La preghiera che oggi condividiamo nella fraterna celebrazione della Parola vuole porre un segno visibile del desiderio che anima le nostre Chiese, cioè l’unità dei credenti in Gesù Cristo.

Non vi siano divisioni tra voi
Grazie all’annuncio del Vangelo, fatto da Paolo agli inizi degli anni cinquanta d.C., a Corinto è nata l’ekklēsía di Dio. La chiesa sorta per iniziativa di Dio, che convoca i credenti mediante l’annuncio del Vangelo, si radica e vive in un luogo preciso: è “la chiesa locale”.

L’apostolo Paolo rende grazie a Dio, che per la sua iniziativa gratuita e generosa ha arricchito i cristiani di Corinto di ogni dono spirituale: ”Non vi manca nessuno dei doni di Dio mentre aspettate il ritorno di Gesù Cristo, nostro Signore. Egli vi manterrà saldi fino alla fine”. Pertanto, l’esistenza cristiana si svolge tra la chiamata iniziale di Dio, avvenuta mediante il Vangelo e arricchita dei suoi doni spirituali, e l’incontro finale, in cui si compie il suo disegno salvifico.

Paolo rassicura i fedeli sul loro futuro. Dio, che li ha chiamati a far parte della sua ekklēsía, porterà a compimento la sua iniziativa, perché fin d’ora essi sono in comunione con il Figlio suo. Dio infatti, al quale Paolo rivolge la sua preghiera di ringraziamento, è pistós, cioè è “fedele”.

Ma la «chiesa di Dio che si trova in Corinto», è minacciata dalla tendenza alle contrapposizioni dei vari gruppi. Paolo affronta la questione dell’unità dei cristiani di Corinto, che formano la chiesa di Dio e sono in comunione con il Figlio suo Gesù Cristo. Nella chiesa di Corinto alcuni cristiani si contrappongono agli altri, appellandosi ai vari predicatori itineranti.

Questi gruppi contrapposti si creano anche per il fatto che i cristiani si riuniscono nelle case di qualche “fratello” benestante, simpatizzante per l’uno o per l’altro predicatore. L’apostolo, che si trova a Efeso, è stato informato di questa situazione dai familiari di Cloe, una cristiana conosciuta a Corinto.

Paolo esorta i fedeli di Corinto all’unità nel loro modo di sentire e di parlare: “Fratelli, in nome di Gesù Cristo, nostro Signore, vi chiedo che viviate d’accordo. Non vi siano contrasti e divisioni tra voi, ma siate uniti: abbiate gli stessi pensieri e le stesse convinzioni”.

Egli prende lo spunto dal fatto che i diversi gruppi a Corinto s’identificano mediante gli slogan, che indicano l’appartenenza all’uno o all’altro personaggio: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». L’ultima espressione potrebbe essere un’aggiunta di Paolo, che in tal modo mette in risalto l’assurdità della posizione dei Corinzi.

Essi vorrebbero definire la propria identità grazie al rapporto con un personaggio importante. Allora la relazione vitale con Cristo, che sta alla base dell’unità di tutti i credenti, viene spezzata. A questo punto Cristo è ridotto a un capo-fondatore accanto agli altri.

Paolo porta allo scoperto la radice profonda della crisi che minaccia l’unità ecclesiale dei Corinzi. La contrapposizione tra i diversi gruppi, in nome di uno o dell’altro personaggio, deriva dal bisogno di autoaffermarsi e dalla ricerca del prestigio. I cristiani di Corinto sono tentati di riprodurre quello che capita nelle varie scuole filosofiche e associazioni religiose, dove si fa riferimento a un caposcuola o capocorrente. In tale contesto l’esperienza cristiana è ridotta a una “conoscenza”, dove quello che conta è l’abilità a ragionare e a discutere su Dio.

In realtà tutti i cristiani, mediante il battesimo, sono inseriti in Gesù Cristo per formare un solo corpo. Paolo invita a non far ricorso alla sapienza umana né agli artifici della retorica, e di costruire la comunità di Corinto con la fede nella stoltezza del Vangelo, che annuncia Gesù Cristo morto in croce: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunziare la salvezza. E questo io faccio senza parole sapienti, per non rendere inutile la morte di Cristo in croce”.

Per risolvere, pertanto, questa crisi di unità e coesione ecclesiale, Paolo ripropone il nucleo dell’annuncio cristiano: Gesù Cristo è morto in croce, è risorto per la potenza di Dio. Secondo l’apostolo, questo annuncio è il fondamento su cui costruire l’unità della Chiesa.

La tunica indivisa
Gesù stesso ha pregato intensamente per l’unità dei suoi discepoli: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (Gv 17, 11).

Questo vivo e struggente desiderio del Signore è ripresentato dai vangeli anche attraverso il riferimento ad un elemento simbolico di straodinaria bellezza e dall’ impatto spirituale provocatorio. Si tratta della tunica di Gesù, tirata a sorte dai soldati sul Calvario.

Come il quarto Evangelista, anche i Sinottici ricordano che i soldati si divisero le vesti di Gesù, ma solo Giovanni distingue fra le vesti che furono spartite e la tunica che invece fu tirata a sorte, attribuendo grande importanza al particolare.
Molti esegeti vedono nella tunica indivisa un simbolo di quell’unità della Chiesa che è il frutto della Croce; in realtà, nel vocabolario giovanneo il termine divisione (schisma) sottintende la divisione del popolo eletto nei confronti di Gesù, ed è quindi naturale che Giovanni collochi sotto la Croce un gesto che simboleggi il compimento della riunificazione dei figli di Dio dispersi, già profetizzata dal sommo sacerdote Caifa (Gv 11,51: “…essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”). La tunica diventa così il simbolo del “grande raduno” che nasce dalla Croce e attorno alla Croce dove Gesù è il re universale, il punto di unità e di attrazione dell’intera umanità.

L’Evangelista Giovanni sviluppa tuttavia questo avvenimento con una certa solennità. E’ il solo a richiamare l’attenzione alla tunica che «era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (19, 23). I soldati che, secondo l’uso romano, si dividono come un bottino le povere cose del crocifisso, non vogliono strappare la tunica. La tirano a sorte e in tal modo essa rimane intera. I Padri della Chiesa vedono in questo passo l’unità della Chiesa; essa è fondata come unica e indivisa comunità dall’amore di Cristo. L’amore del Crocifisso ricongiunge ciò che è diviso. La Chiesa è una nei molti.

Benedetto XVI, nel Messaggio al vescovo di Treviri, Germania, per l’apertura del pellegrinaggio alla “sacra tunica” (13 aprile 2012) affermava, tra l’altro, che la Chiesa, “come comunità unica e indivisa è opera di Dio, non il prodotto degli uomini e delle loro capacità. La tunica giovannea vuole essere un ammonimento alla Chiesa perché rimanga fedele alle sue origini, si renda consapevole che la sua unità, il suo consenso, la sua efficacia, la sua testimonianza possono essere, in fondo, creati solo dall’alto, possono essere donati solo da Dio”.
Dobbiamo però considerare in quali fragili vasi (cfr Cor 4,7) portiamo il tesoro che il Signore ci ha affidato, e come, a causa del nostro egoismo, delle nostre debolezze ed errori, viene ferita l’integrità del Corpo di Cristo. E’ necessaria una costante disposizione alla conversione e all’umiltà per essere discepoli del Signore con amore e con verità.

L’unità prevale sul conflitto
Papa Francesco, nell’Esortazione “Evangelii gaudium” indica quattro principi che rimandano alle tensioni proprie di ogni realtà sociale. Uno di questi, lo ritengo valido anche per la realtà ecclesiale e alla sua tensione ecumenica. Esso recita così: “L’unità prevale sul conflitto” (nn. 226-230).
Scrive Papa Francesco:
“Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse…Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri…Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto…trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo… In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda”.

Questo principio possiamo osservarlo anche come metodo, cioè strada maestra, del dialogo tra le comunità cristiane. Preghiamo perché il cammino ecumenico, fondato sulla comune fede nel Signore Gesù, sciolga ogni conflitto grazie all’audacia dell’ascolto fraterno, della feconda umiltà, del sincero pentimento che apra al perdono di Dio e al reciproco perdono dei fratelli e delle sorelle di ogni confessione cristiana.

Lo Spirito di Dio sostenga la fatica ininterrotta del dialogo, per giungere alla visibile unità quale segno straordinario di speranza per la salvezza del mondo. Amen.

+ Gerardo Antonazzo

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