Omelia per la Giornata della Vita Consacrata

La consolazione d’Israele 

Omelia per la Giornata della Vita Consacrata

Cassino-Monastero S. Scolastica, 2 febbraio 2018

 

Attendere la consolazione 

“A Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio…” (Lc 2, 25-27).

E’ di tutti il bisogno di consolazione. Tra le più importanti promesse di Dio al suo popolo, affiora ripetutamente quella della consolazione con la quale sostiene la vita di Israele nei molti difficili eventi della sua storia. Tra i servizi più necessari svolti da Mosè, posto da Dio alla guida delle tribù israelitiche nel deserto, c’è quello della consolazione. E’ l’uomo che sa dare coraggio e incita (Es 14,13-14). Dio stesso annuncia la consolazione per Israele umiliato dalla condizione servile a motivo dell’esilio babilonese: “Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta” (Is 40, 1-2). Simeone è, dopo i pastori, il secondo testimone della vicinanza della salvezza di Dio. Attende la consolazione di Israele, che è la venuta del regno di Dio. Il motivo della consolazione di Dio, soprattutto nel contesto gerosolomitano, ricorda anche Is 66,13: “Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati”.

Lo Spirito è consolatore 

San Luca sottolinea con insistenza che Simeone è ispirato dallo Spirito Santo: tre menzioni in tre versetti (vv. 25-27). Lo Spirito Santo è l’altro parakletos (cfr. Gv 14,16). Egli è il consolatore solennemente promesso e inviato da Cristo risorto per essere il nostro avvocato, il nostro difensore ed alleato, il nostro aiuto. Lo Spirito Santo è l’olio della consolazione con il quale Cristo, buon samaritano dell’umanità (cfr. Lc 10,29-37), unge le ferite del corpo e dell’anima; illumina la vita di chi sperimenta l’oscurità e l’incertezza; sostiene chi attraversa un tempo di smarrimento e di solitudine; incoraggia chi averte sentimenti di paura e di sconforto. Gesù, portato da Maria e Giuseppe, oggi entra nel Tempio: è il luogo privilegiato sia dell’attesa sia del compimento delle antiche promesse. Quando Dio entra nel tempio delle nostre attese incompiute, dà risposta alle nostre frustrazione, delusioni, solitudini, difficoltà e prove.

Dio assicura la sua consolazione mentre siamo preda dello scoraggiamento e delle difficoltà. La sua consolazione viene sperimentate nel cuore dei nostri drammi morali o spirituali: è la consolazione nelle prove: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2Cor 1, 3-5).

Consolazione nella chiamata

La nostra vocazione è sorgente di consolazione? Siamo stati scelti per il discepolato, e abbiamo accettato di vivere secondo il carisma ispiratore di un fondatore o di una fondatrice, per una sequela radicale di Cristo. Ma sempre dobbiamo ravvivare la chiamata di Dio perchè “un carisma non è un pezzo da museo, che resta intatto in una vetrina… No, il carisma… bisogna aprirlo e lasciare che esca, affinché entri in contatto con la realtà, con le persone, con le loro inquietudini e i loro problemi… Sarebbe un grave errore pensare che il carisma si mantiene vivo concentrandosi sulle strutture esterne, sugli schemi, sui metodi o sulla forma. Dio ci liberi dallo spirito del funzionalismo” (Papa Francesco, Udienza ai sacerdoti di Schönstatt, 3/9/15).

Padre Bruno Secondin, carmelitano, esperto di vita consacrata, carmelitano in una recente relazione tenuta ai religiosi dell’Emilia-Romagna, sabato 20 gennaio 2018 ha affermato: “Dio sembra sullo sfondo, come presidente onorario, più allo stato spray (come dice Francesco) che davvero in carne e ossa, ragione e sorgente e grazia che tutto guida. La vera “divinità” ispirativa è il fondatore o la fondatrice – geniali ispiratori – a cui si rimanda con enfasi, per dire che ancora ispirano e vivono nei figli e nelle figlie. I quali dimostrano questo legame vitale più nella gestione delle opere, nelle iniziative di carità, di evangelizzazione o di spiritualità, a propria gratificazione, che nel farne avanzare le intuizioni “profetiche” – sotto la spinta creativa dello Spirito – verso nuove interpretazioni vitali e testimoniali, oltre il già noto e conosciuto”.

Consolazione nella fraternità

La fraternità nella vita consacrata è motivo di consolazione? J. P. Sartre osava dichiarare: “L’inferno sono gli altri”. Potrebbe essere vero anche nelle nostre comunità religiose, come in quelle parrocchiali o nei gruppi, movimenti, associazioni. Ma nelle comunità religiose in particolare l’esigenza della fraternità è performativa dei nostri rapporti umani. Se i rapporti con gli altri sono distorti, viziati, allora l’altro non può essere che l’inferno. Perché? Perché gli altri sono, in fondo, ciò che vi è di più importante in noi stessi. Ciò vuol dire che, se i miei rapporti sono cattivi, io mi metto a totale dipendenza degli altri e allora, in effetti, io sono nell’inferno. Ciò non significa che non si possano avere altri rapporti con gli altri, questo delinea semplicemente l’importanza capitale di tutti gli altri per ciascuno di noi: “Nate ‘non da volontà della carne o del sangue’, non da simpatie personali o da motivi umani, ma ‘da Dio’ (Gv 1,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione, le comunità religiose sono un segno vivente del primato dell’Amore di Dio che opera le sue meraviglie, e dell’amore verso Dio e verso i fratelli, come è stato manifestato e praticato da Gesù Cristo” (Congregazione Istituti vita consacrata, “La vita fraterna in comunità”, 2 febbraio 1994).

Dopo aver cantato la gioia della sua consolazione, avendo preso tra le sue braccia il Bambino, Simeone benedice Dio (Lc 2,28) e il bambino con i suoi genitori (v. 34). Fra le due benedizioni, il suo Cantico, il Nunc dimittis.

Carissimi consacrati, il mio augurio è che anche nella vostra vita di la consolazione di Dio si traduca sempre  nell’inno della benedizione e nel canto della lode.

                                                                                  + Gerardo Antonazzo

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