Convegno Pastorale sul risveglio della Fede: La catechesi e la pastorale in prospettiva missionaria

In questo secondo intervento provo a indicare alcune scelte pratiche rispetto a tre aspetti: la catechesi delle nostre comunità; la pastorale; la figura del catechista evangelizzatore.

1. Riprogettare la catechesi in una prospettiva di primo e secondo annuncio

Mi limito a indicare, senza approfondirli, tre spostamenti della catechesi.

a) Lo spostamento del baricentro

In coerenza con una prospettiva missionaria noi ci dobbiamo interrogare su quale sia il soggetto della catechesi, attivo e passivo, attorno al quale unificare la proposta di primo e secondo annuncio.  Ora, sia le proposte, sia le risorse ecclesiali (catechisti) sono ancora fortemente sbilanciate sull’iniziazione cristiana dei ragazzi. Un’inchiesta a livello italiano a metà degli anni ’90 indicava che su circa 300 mila catechisti italiani, il 91,2% si dedicava all’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi (circa 273.000). Sarebbe come se il 92% dei medici italiani fossero pediatri. Un’inchiesta successiva nel 2004 non modificava sostanzialmente questo dato e confermava a grandi linee questo sbilanciamento[1]. Il nucleo unificatore attuale della catechesi è ancora il bambino (catechesi puerocentrica). Questa scelta era adeguata a un contesto di cristianesimo sociologico (gli adulti erano già credenti), di fede ereditata e di una pastorale di mantenimento (cura fidei). Il cambio di prospettiva missionaria chiede che spostiamo il baricentro. Possiamo pensare a un’ellisse con due fuochi: la famiglia, seguendo l’arco della sua storia; l’adulto nei passaggi fondamentali della sua vita (criterio cronologico e antropologico). Tale spostamento di asse nella catechesi va fatto progressivamente, ma senza lasciarsi ingannare dall’effetto miraggio (il polverone) .

Siamo d’accordo a prendere questi due soggetti come perno per la proposta catechistica? Dalla risposta a questa domanda dipende tutta la programmazione della catechesi. Se sommiamo il cambio di prospettiva (primo e secondo annuncio) con il cambio di perno (famiglia, adulto), noi abbiamo le due coordinate per un ripensamento missionario della catechesi.

b) La scelta delle “porte di ingresso” o “ritorno”

Non è possibile avviare un cambiamento modificando contemporaneamente tutti gli elementi in campo. Occorre scegliere delle priorità e perseverare a lungo in esse. Prendendo una prospettiva missionaria, mettendo al centro famiglia e adulto, siamo chiamati ad individuare alcune porte di ingresso alla fede, o porte di reingresso per coloro che sono già stati cristiani. Presento due esempi, il primo di una parrocchia della mia diocesi, il secondo di una unità pastorale. Il consiglio pastorale di una parrocchia in ambiente rurale, dopo l’analisi della situazione,  decide di impegnare le proprie forze per tenere bene aperte tre porte di ingresso: i corsi per fidanzati; il battesimo (porta di ingresso del bambino, porta di nuovo ingresso per gli adulti); l’accompagnamento dei genitori di iniziazione cristiana e con loro i loro figli. Si tratta di una scelta a partire da ciò che è già in atto, ma in una prospettiva di secondo annuncio. Questa parrocchia ha deciso di investire le sue energie catechistiche in questa direzione per i prossimi dieci anni, curando queste tre porte di entrata.

Nell’unità pastorale delle nove parrocchie del centro di Brescia, una popolosa città del nord d’Italia che ho accompagnato per un anno nel loro discernimento pastorale, la scelta è stata di concentrarsi su tre priorità, una tradizionale, una emergente, l’altra nuova: la pastorale pre/post battesimale; l’accompagnamento di coppie in situazioni difficili (conviventi, separati, divorziati); l’accoglienza e l’annuncio del Vangelo (implicito o esplicito) agli immigrati. I consigli pastorali di queste nove parrocchie hanno deciso che queste tre porte di ingresso costituiranno  per i prossimi anni la palestra di allenamento per una pastorale condivisa e per una comunità missionaria. Tutto è importante nella catechesi, ma qualcosa lo diventa di più, come avvio di un cambiamento e allenamento alla missionarietà.

Quali priorità decidiamo di scegliere? Quali porte di entrata decidiamo di riaprire e di curare particolarmente?

La risposta a questa domanda, dentro le prospettive sopra indicate, permette di decidere dove investire le energie catechistiche, per forza limitate.

c) Il primo e secondo annuncio in ogni passaggio della vita

Rimane una terza questione fondamentale per una catechesi di primo e secondo annuncio: la sua capacità di ridere il kerygma pasquale facendolo risuonare come bella notizia nelle differenti esperienze di vita degli adulti. Il kerygma è uno solo, secondo la felice definizione di Papa Francesco: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”.

Questo annuncio non va ripetuto come un ritornello, ma come un canto che in ogni stagione interpreta la giusta melodia. Così, nell’accompagnamento dei fidanzati sarà il kerygma dell’amore (Dio vi ama, è contento del vostro amore e lo benedice. Comunque andrà il vostro cammino egli è il vostro salvatore); nell’incontro con genitori che chiedono il battesimo sarà il kerygma della paternità e della maternità di Dio (Dio vi ama; è felice per il vostro bambino e lui che è padre e madre vi accompagna nel farlo crescere); nell’accompagnamento dei genitori con figli che vivono l’iniziazione cristiana sarà il kerygma della genitorialità (Dio vi ama; egli sa che è facile mettere al mondo un figlio, molto più difficile essere padri e madri. È esperto nel generare. Non vi lascia soli nel vostro compito di educazione dei figli); nell’incontro con gli adolescenti sarà il kerygma della chiamata (per Dio sei importante, prezioso; c’è un progetto a cui puoi dare il tuo assenso libero; c’è un posto pe te nella vita); per i giovani sarà il kerygma del viaggio, dell’itineranza (Dio ama viaggiare, come te, insieme a te; ama la ricerca, onora i tuoi dubbi, rispetta la tua ragione e la tua libertà); per gli adulti, nei differenti passaggi della vita, sarà il kerygma della presenza («Ecco, io sono con te e ti proteggerò ovunque tu andrai» (Gen 28,15)).

Una prospettiva di secondo annuncio chiede alla catechesi un ritorno all’essenziale, una rivisitazione del suo linguaggio, un annuncio di gioia che tiene indissolubilmente unite le parole di Dio e le parole umane. Il primo e secondo annuncio chiedono alla catechesi di imparare il linguaggio della vita, di considerare la vita umana come l’alfabeto di Dio. Chiedono, in fin dei conti, di uscire dal sacro e di tornare a dare carne alla Parola che si è fatta carne. Il Verbo ha impiegato tutta la storia della salvezza per farsi carne. In soli due mila anni siamo riusciti a disincarnarlo. L’amore di Dio è il canto fermo del primo annuncio, la esperienze umane sono i suoi contrappunti. Entrare nella vita delle persone, abitarla con passione, compassione e speranza è la più alta attività cristiana che possiamo mettere in atto. Questo è terreno sacro, nel quale camminare in punta di piedi, togliendosi i calzari. Qui si sospende ogni giudizio, ogni valutazione. Ogni storia umana è storia sacra e non c’è storia sacra perfettamente lineare, senza sbagli, senza fragilità, senza dolore. La sacralità della vita viene dalla sua vulnerabilità. Visitare e accompagnare la storia delle donne e degli uomini è il più grande atto di amore. È anche il modo più bello, forse l’unico, per annunciare il Vangelo, per mostrare a tutti il dono di vita buona che esso contiene.

La Chiesa, concentrata spesso sul solo piano oggettivo della fede, ha bisogno di questo trasloco nella storia che Dio scrive dentro la carne delle donne e degli uomini di oggi. Allora capirà anche diversamente e più in profondità l’aspetto oggettivo della Rivelazione.

2. Ridisegnare la pastorale in prospettiva missionaria

Guardiamo ora al versante della pastorale e di riflesso alla figura della comunità. Senza pretesa di completezza, indico anche per la pastorale alcuni spostamenti.

1) Osare la disorganizzazione pastorale

Qualche anno fa mi trovavo nella diocesi di Mons. Bruno Forte (Chieti), per un convegno nazionale dei catechisti italiani. Il tema era “Passaggi di vita, passaggi di fede”. Fui incaricato di fare la sintesi finale del Convegno e dedicai il pomeriggio libero di uscita per fare questo lavoro[2]. Era estate ed eravamo vicini al mare. Alle ore 17 avevo terminato la mia sintesi, cercavo solo un’immagine, un simbolo, un racconto per riassumere la riflessione che avevamo fatto. Decisi di andare a fare un bagno. Io non sono un buon nuotatore, mi limito a stare a galla. Arrivato sulla spiaggia fui subito attratto da un cartello: “Il salvataggio si effettua dalle ore 9 alle ore 17”. Guardai l’orologio: erano le 17.30! Quel cartello era il simbolo della nostra pastorale, una pastorale pensata a partire dalla propria logica interna, che chiede alla vita delle persone di adattarsi alla sua organizzazione. La vita delle persone inquadrata dalla pastorale e non la pastorale a servizio della realtà della vita. Ho dovuto rinunciare al mio bagno, limitandomi a mettere i piedi in acqua, ma in compenso avevo trovato l’immagine che cercavo.

La prospettiva missionaria richiede la disponibilità a destrutturare i nostri impianti pastorali. Abbiamo bisogno di un po’ di disordine. Potremmo dire così: organizzare la disorganizzazione. «Mi pare che ci sia bisogno di una Chiesa disposta a cambiare la propria impostazione pastorale di fondo e alcune delle sue strutture per renderle veramente adeguate a quella conversione missionaria di cui si parla da anni. Si tratta di avere il coraggio di destrutturare l’impostazione pastorale, di renderla meno pianificata nella sua organizzazione e più flessibile, capace di piegarsi alle esperienze di vita delle persone, alle forme della comunicazione che essi oggi privilegiano; ai luoghi che essi frequentano; ai tempi di un’esistenza frantumata, affannata e spesso convulsa. Per incontrare i cercatori di Dio, che nel nostro tempo come forse in ogni tempo non frequentano i luoghi della Chiesa, ma quelli della vita e del mondo, occorre una Chiesa capace di andare verso il mondo, di organizzarsi nella dispersione della vita di oggi (come è dire: dis-organizzarsi, per poter entrare in sintonia con una vita dispersa)»[3]. L’attuale pastorale è spesso organizzata in maniera rigida e con ripartizioni di compiti che possono portare a percorsi indipendenti. L’impianto organizzato e strutturato, la ripartizione in ambiti pastorali con relativi uffici, gli schemi operativi consueti e collaudati operano da griglia di lettura dell’esistente: hanno un effetto di formattazione della realtà, ci impediscono di vedere il nuovo che è in atto perché lo riconducono al già visto, al “déjà vu”.

2) Riorganizzare la pastorale: i “tria munera” e “l’alfabeto della vita umana”

Come può essere ripensata l’organizzazione pastorale in questa prospettiva?

A partire dal Concilio Vaticano II la nostra pastorale si è organizzata attorno ai “tria munera”, portando a una articolazione ormai consolidata e sicuramente pratica: annuncio, celebrazione e comunione/carità (catechesi, liturgia e carità)[4]. È su questa ripartizione che ci siamo organizzati in servizi, uffici, équipe, proposte pastorali. Questa ripartizione di settori e di compiti ha il vantaggio di salvaguardare l’unità della missione della Chiesa negli elementi che la costituiscono come dono da parte di Dio. Salva quindi il lato oggettivo della grazia di Dio, irriducibile ad ogni antropologia. I suoi limiti però sono apparsi nel tempo piuttosto evidenti. La tripartizione ha portato alla parcellizzazione delle azioni pastorali e alla moltiplicazione delle mediazioni messe in atto (uffici, iniziative, percorsi, ecc.). Si dimostra debole ad assicurare una unità della proposta tra i suoi differenti soggetti e servizi, non riesce a manifestare la profonda complementarità di Parola, Liturgia e Carità, e soprattutto fatica a mostrare come ogni elemento del Vangelo è per l’uomo e per la pienezza della sua vita.

Il convegno ecclesiale di Verona nel 2006 ha lanciato alle comunità cristiane un appello profetico.  L’unità della pastorale della chiesa – ha affermato – va ricondotta all’unità della persona, per mostrare più chiaramente la portata antropologica dei gesti della chiesa. Occorre ripensare la pastorale incentrandola maggiormente sulle esperienze fondamentali che ogni donna e ogni uomo vivono nell’arco della propria esistenza. Il Convegno aveva in modo esemplificativo indicato cinque esperienze antropologiche come luoghi nei quali pronunciare cinque «concreti aspetti del “sì” di Dio all’uomo, del significato che il Vangelo indica per ogni momento dell’esistenza». Questi cinque sì, queste cinque parole di benedizione che una pastorale missionaria è chiamata a far risuonare riguardano  la dimensione affettiva, il rapporto con il lavoro e la festa, l’esperienza della fragilità, la trasmissione/tradizione dei valori tra una generazione e l’altra (l’ambito educativo), la responsabilità e la fraternità sociale.[5] La pastorale missionaria ridisegna la sua proposta articolando il criterio ecclesiologico (espresso nei tria munera) con quello antropologico, perché risuoni in modo più chiaro che il Vangelo è buona notizia per la vita di ciascuno, che esso annuncia la pasqua di Dio nelle pasque umane, il suo passaggio nelle traversate della vita umana.

Le conseguenze sull’organizzazione pastorale sono bene evidenziate dal teologo e vescovo Franco Giulio Brambilla: «Ciò rappresenta effettivamente – scrive – una sfida nuova. Occorrerà immaginare che cosa significhi questo per lo stile pastorale dei ministri del vangelo e prima ancora per la testimonianza del credente. … Bisognerà ridare scioltezza ai differenti settori della vita pastorale e alla loro organizzazione pratica (dai livelli più alti degli uffici centrali alle singole comunità, passando per le diocesi e le strutture intermedie), rimescolando i compartimenti in cui si sono sovente cristallizzati. Occorrerà ripensare i gesti pastorali che spesso non intercettano quelli degli altri settori, rivedere i programmi che hanno un forte carattere autoreferenziale. Soprattutto bisogna mostrare in modo chiaro che si tratta di pensare e vivere una pastorale per l’uomo e con l’uomo, perché egli sappia di nuovo accedere alla speranza della vita risorta. La pastorale della chiesa – soprattutto quella che vuole ripensarsi in prospettiva missionaria– è tutta protesa a dar forma cristiana alla vita quotidiana». Una pastorale missionaria è una pastorale che sa al tempo stesso sintonizzarsi sul dono di Dio e sulla vita umana, leggendola come “alfabeto di Dio”.

Se permettete una testimonianza personale, vi posso dire che da due anni coordino una équipe a livello nazionale, chiamata équipe secondo annuncio, che per un sessennio raccoglie, analizza e orienta pratiche di secondo annuncio su cinque esperienze umane fondamentali, così articolate: generare e lasciar partire; errare; legarsi, lasciarsi, essere lasciati; appassionarsi e compatire; vivere la fragilità e il proprio morire. Noi consideriamo queste esperienze come vere “periferie antropologiche”. In questo lavoro cerchiamo di mettere insieme i diversi settori e operatori pastorali per impegnarci insieme a far risuonare il kerygma in ciascuno di questi passaggi della vita umana. È così che la catechesi cerca di non essere isolata dalla pastorale e aiuta la pastorale a uscire da una logica di settore e di compartimenti stagni. Noi intendiamo raccogliere nell’arco dei prossimi cinque anni una cinquantina di buone pratiche di secondo annuncio nelle quali impegnarci tutti insieme, al di là dei differenti settori e delle differenti competenze. È una sfida catechistica e pastorale al tempo stesso.

3) Allargare la ministerialità ecclesiale

Un terso elemento implicato in una conversione missionaria della pastorale riguarda l’esigenza di allargare la ministerialità pastorale. Se noi ci concentriamo sulla vita umana nei suoi passaggi fondamentali, sappiamo vedere questi passaggi come pasque umane e ci facciamo presenti per annunciare in essi la pasqua del Signore Gesù, è evidente che un simile annuncio è una questione fondamentalmente laicale. Sono le persone che vivono sulla loro pelle i passaggi di Dio nella loro vita le più indicate per testimoniarli ai loro fratelli e alle loro sorelle. Per questo dobbiamo allargare la ministerialità attuale, fidandoci dei battezzati che conoscono il sapore dolce e amaro degli affetti, che sperimentano tutta la gamma delle fragilità, del lavoro e della festa, della malattia, della perdita di lavoro, dei lutti, della morte. Io penso che dobbiamo avere più coraggio nel fidarci dei laici. Quando il Signore mandò i settantadue ad annunciare il regno due a due (Lc 10, 1ss), voi pensate che fossero preparati?  Gli eventi successivi hanno mostrato che non lo erano. Se la missione è competenza dello Spirito Santo, occorre fare affidamento alla sua forza e alla debolezza dei testimoni. Per questo io penso che dovremo pensare seriamente a una ministerialità della debolezza, che meglio annuncia la grazia di Dio. Chi è più adatto a portare il primo e secondo annuncio a una coppia di divorziati? Sicuramente una coppia di divorziati che ha fatto un cammino di fede. Come è da ripensare la ripartizione classica dei compiti e dei servizi pastorali, così dovremo riaprire il dossier della ministerialità ecclesiale e della sua regolazione.

4) Attivare una ritualità cristiana che dia forma alla vita

Il ripensamento della pastorale in prospettiva missionaria richiede di rivederne tutti gli elementi. Mi limito a segnalarne ancora uno, che ritengo fondamentale. Esso riguarda la dimensione rituale della fede. L’annuncio della pasqua di Gesù nelle pasque umane (compito della pastorale) non si esaurisce nelle parole, né nella vicinanza fraterna e solidale. La benedizione di Dio nella carne dell’uomo si attua attraverso i riti, diventa per ciascuno l’ “oggi” della grazia di Dio nella celebrazione liturgica. Ritroviamo qui, come vedete, i “tria munera” (annuncio esplicito tramite le parole, annuncio implicito tramite la carità, annuncio che diventa realtà per ciascuno nel rito).  È confortante constatare come i sette sacramenti (con tutti i limiti del settenario cattolico)  siano tali proprio per esprimere l’inserirsi di tutta la vita dentro la totalità del mistero pasquale. La loro articolazione orizzontale, nei tempi della vita umana, dice che la vita, dalla nascita alla morte, è salvata, che non c’è nulla dell’esperienza umana che sia priva della salvezza di Dio. Ad ogni traversata della vita il Signore risorto ti raggiunge e ti custodisce. Si tratta, come sappiamo, di un unico grande sacramento, ma il suo emergere settiforme segnala, favorisce e attua l’esperienza di essere salvati e custoditi dalla paternità di Dio in ogni momento della propria storia personale, familiare, comunitaria. Lavati, profumati, nutriti, resi capaci di amare, presi in cura, accompagnati nel morire.

È questo il senso ultimo dei sacramenti e di tutti i riti della fede. Dentro un contesto di cristianità i riti hanno corso il rischio di uno svuotamento antropologico e di una riduzione a gesti sacri, di un decadimento da riti a cerimonie. La prospettiva missionaria diventa una chance per la ritualità cristiana. Le chiede e le permette di ricuperare la sua vocazione di dare forma alla vita umana. Noi corriamo il rischio nella celebrazione dei riti di oscillare tra la stanchezza ripetitiva, la tentazione di tornare a vecchi formalismi nostalgici o di cercare ingenue spettacolarità. Abbiamo invece bisogno di una liturgia seria, semplice e bella, un’azione che metta in contatto con il mistero di Dio e assuma tutto l’umano, che coinvolga ogni aspetto dell’umano. È vero che la liturgia non è fatta per emozionare, ma per celebrare il mistero pasquale. Ma se la celebrazione del mistero pasquale non emoziona, cioè non raggiunge la carne dell’uomo, allora c’è un problema, allora non potrà essere mai un rito che dà forma alla vita. La prospettiva missionaria avvia un laboratorio rituale. Tale laboratorio deve essere un affare di tutti gli operatori pastorali, non solo dell’Ufficio liturgico o del gruppo liturgico. La catechesi e la carità si devono mettere insieme alla liturgia per celebrare ogni situazione umana. Questa celebrazione domanda di ripensare la celebrazione dei sacramenti, ma chiede di estendersi a tutta l’esperienza umana. Ogni gioia, ogni sofferenza, ogni fallimento, ogni mancanza va celebrata. L’attitudine missionaria è chiamata a inventare parole di benedizione rituale non limitate ai sacramenti, ma dentro ogni gioia e ogni sofferenza umana.

3. La figura dell’evangelizzatore

Vorrei terminare i due interventi di queste sere parlando della figura del catechista evangelizzatore. Invito a riferirsi a un testo biblico che ci può dare un grande aiuto. Si tratta dell’incontro tra Filippo e l’eunuco, che ci presenta lo stile missionario dell’evangelizzatore in un contesto di primo annuncio. Non facciamo certo l’esegesi del testo, ma ne ricaviamo 7 tratti, che lascio al vostro approfondimento.

1. L’evangelizzatore lascia i luoghi sacri per le strade deserte

Luca ci ha raccontato nei capitoli precedenti le imprese di Filippo, simbolo di tutta la comunità ecclesiale, nella missione di evangelizzazione, una missione caratterizzata dal successo, con la potenza della parola e dei prodigi.  E improvvisamente l’angelo del Signore manda Filippo su una strada deserta, in direzione di Gaza, a mezzogiorno, quando non passa nessuno. Filippo non è a Gerusalemme, la città santa, nel tempio, ma su una strada profana verso una città profana. E in un ora dove è assolutamente improbabile incontrare qualcuno.

E’ bene sottolineare che è l’angelo del Signore (cioè lo spirito Santo) a spingere Filippo lontano dalla Gerusalemme sacra e a portarlo su una strada deserta. Il deserto, la strada deserta, indicano quei luoghi profani nei quali sembra insensato o rischioso avventurarsi. Indicano la storia e la cultura quando queste non si riconoscono più nei codici religiosi abituali. Indicano anche le “periferie umane” di cui ci parla così spesso Papa Francesco.

2. Sa cogliere la domanda di senso

Su quella strada deserta, su cui lo Spirito l’aveva sospinto, Filippo, contro ogni umano calcolo e contro ogni sensata previsione, è sorpreso da una presenza. Luca ci comunica questo senso di sorpresa e di meraviglia con un improvviso “ed ecco”, al quale fa seguire la descrizione di un personaggio strano: “un etiope, eunuco, funzionario della regina Candace…, venuto a Gerusalemme per il culto” che sta leggendo il profeta Isaia (cf. At 8,27s.). Sulla strada deserta, ad un’ora non certamente propizia, per la disponibilità dell’evangelizzatore Filippo, si realizza un incontro che suscita stupore: là c’è un uomo che viene da lontano, da quel “confine della terra” come era considerata l’Etiopia; un uomo caratterizzato dal suo alto ruolo sociale, ma soprattutto segnato dalla sua condizione marginale e disprezzata di eunuco.

Ebbene, la sorpresa per Filippo è che quest’uomo così insolito è in ricerca religiosa!

La seconda caratteristica dell’evangelizzare è dunque quella di lasciarsi sorprendere da tutti, dai ragazzi, dai giovani, dagli adulti, di guardarli tutti con simpatia, perché solo la simpatia sa vedere dietro le persone con i loro atteggiamenti anche più strani, le domande profonde che abitano il loro cuore.

3. Fa strada insieme

Se osserviamo il percorso di Filippo con l’eunuco etiope, lo vediamo contrassegnato da una pedagogia dell’accompagnamento (cf. At 8,29-34), chiaramente modellata su quella utilizzata dal Risorto con i pellegrini di Emmaus (cf. Lc 24,15-24). C’è tutta una serie di verbi significativi: incontrare, correre vicino, sentire, salire sul carro e sedersi vicino. E’ qui indicata tutta una delicata e profonda progressione di entrata in relazione con la persona. C’è un dinamismo interiore che spinge, un andare, un correre vicino, una ascoltare attento, un fare strada insieme.

In questa prima parte (che è già annuncio), Filippo è passivo: non parla. Si limita ad avvicinarsi e ad ascoltare, cioè ad entrare in relazione vera. L’unica parola sua è una domanda stimolo, che provoca nella persona una presa di coscienza e una domanda di aiuto: “e come potrei comprendere, se nessuno mi guida?”.

È in fondo una pedagogia del dialogo quella che il cammino di Filippo con l’eunuco ci suggerisce.

Una terza caratteristica dell’evangelizzatore è proprio quella che egli sa ascoltare, fare strada insieme, entrare nella storia delle persone.

4. Annuncia Gesù come bella notizia

Il racconto di Luca ci dice poi, con un versetto molto denso (v. 35) che Filippo prende la parola e “gli evangelizzò Gesù”. E’ difficile rendere la forza di questa espressione. Evangelizzare Gesù significa annunciare Gesù come significativo per la vita. In fondo, Filippo gli dà Gesù, facendogli capire che il profeta Isaia parlava di se stesso, di un altro e insieme dell’eunuco.

Non sappiamo quale aspetto del messaggio di Gesù Filippo abbia detto all’eunuco. Ma il testo di Isaia sul Servo sofferente, ci fa capire che egli è andato diritto al cuore dell’annuncio cristiano, il mistero di morte e di risurrezione del Signore.

Perché Filippo riesce a dargli Gesù come buona notizia? Perché sa intrecciare tre storie: quella dell’eunuco, che ha ascolto, quella di Gesù, e la sua. Egli raggiunge il cuore dell’eunuco perché l’eunuco vede la testimonianza di Filippo, vede che Filippo è già stato salvato dalla storia che racconta.

Ecco dunque una quarta caratteristica dell’evangelizzatore. Non si accompagna veramente se non si arriva a testimoniare la propria fede nel Signore Gesù, presentandolo agli altri come la nostra gioia, come l’annuncio che ha toccato la nostra vita.

5. Non crea impedimenti

Dopo l’annuncio di Filippo, l’eunuco fa una domanda che è rivolta anche a noi: “Cosa impedisce che io sia battezzato?”, che io entri a far parte della comunità dei salvati? Luca formula questa domanda in modo molto evocativo. Nel linguaggio del suo vangelo e degli Atti degli apostoli quell’impedimento che l’eunuco evoca è quello posto molte volte dalla comunità religiosa e cristiana. Basta pensare agli apostoli che impediscono ai fanciulli di andare a Gesù (Lc 18,15-17);  ai farisei che impediscono con i loro schemi religiosi che qualcuno entri nel regno dei cieli (Lc 11,52); ai discepoli che vorrebbero impedire che i demoni vengano cacciati da chi non è della nostra cerchia; a Pietro nell’episodio di Cornelio, quando la comunità lo rimprovera di aver dato il battesimo a un pagano (cf. At 10,47 e 11,17).

Abbiamo dunque qui una quinta caratteristica dell’evangelizzare. Essa consiste nell’abbandonare qualsiasi pregiudizio moralistico e religioso e credere che tutte e tutti, comunque sia la loro vita, sono degni del Vangelo e anzi i più poveri sono i più adatti ad accoglierlo. Noi continuiamo a pensare che ci sia un solo modo di accogliere il vangelo, quello di chi è in regola con la Chiesa e le sue norme su tutti i punti, quelli che vengono a messa tutte le domeniche, che hanno famiglie unite, ecc. Ora sempre di più ci saranno persone che faranno parte della comunità dei salvati anche se in modo graduale e che sono raggiunti dalla grazia del Signore anche se per storie di vita o per scelte non potranno mai essere del tutto “a posto”, secondo i nostri canoni, cioè che continueranno a essere da credenti degli “eunuchi”, dei menomati. Li terremo lontani dalla comunità perché non perfetti? Se così fosse, presto le nostre comunità saranno deserte e anche noi ce ne dovremo andare.

6. Condivide il cammino di riscoperta della fede

Il testo presenta poi un passaggio molto interessante. «38 Fece fermare il carro e scesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò».

Evangelizzatore e evangelizzato scendono insieme nell’acqua. Simbolicamente richiama l’esperienza del mistero pasquale, l’immersione nella morte/risurrezione del Signore. Luca utilizza una forte sottolineatura del gesto attraverso una doppia enfatizzazione non necessaria: “tutti e due”, “Filippo e l’eunuco”. Il testo sembra suggerire che chi accompagna un altro nel cammino della fede non può restare fuori da questo stesso cammino: deve in qualche modo accettare di ripercorrere differentemente, a partire dall’altro, il percorso della fede già una volta compiuto. Non si esce indenni da un accompagnamento.

Abbiamo una sesta caratteristica dell’evangelizzatore come “compagno di viaggio”. Si tratta di compromettersi realmente nel cammino di fede dell’altra persona. L’evangelizzatore non può stare fuori a guardare. Deve rischiare un ricominciamento a partire dall’altro. Questo ricominciamento porta l’evangelizzatore stesso a “credere diversamente”, ricevendo da colui che accompagna una sorta di re iniziazione. Chi evangelizza chi? C’è una reciproca evangelizzazione

 

 7. Sa scomparire

Infine è bello sottolineare che il testo termina con l’indicazione che lo Spirito rapisce Filippo e lo porta lontano, mentre l’eunuco prosegue con gioia la sua strada.

Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza per ogni evangelizzatore. Segnala il carattere di mediazione di ogni accompagnamento e la necessità di lasciare pieno spazio all’azione dello Spirito e al cammino personale dei soggetti. L’accompagnamento mira a restituire le persone all’azione dello Spirito, il quale è l’unico missionario competente.

Questo significa anche che l’accompagnamento rinuncia a verificare i risultati. Noi seminiamo, qualcun altro irrigherà, la solo Dio fa crescere.

Conclusione

«Il 26 dicembre 1999, un uragano chiamato «Lothar» ha dilagato sull’Europa, in particolar modo nell’Est della Francia, con venti a più di 150 km orari. Si stima che 300 milioni di alberi siano stati abbattuti sul territorio francese…

Dopo la catastrofe, alcuni uffici tecnici hanno velocemente elaborato programmi di rimboschimento, progetti di reimpianto, piani di semina. Si trattava di approfittare della catastrofe per ricostruire la foresta secondo l’immagine ideale che era possibile farsene.

Ma una volta che si è trattato di attuare questi piani di rimboschimento, gli ingegneri forestali hanno constatato che la foresta li aveva anticipati. Hanno osservato una rigenerazione più rapida di quella prevista che veniva ad ostacolare i piani di rimboschimento manifestando talora delle configurazioni nuove, più vantaggiose, alle quali gli uffici tecnici non avevano pensato. La rigenerazione naturale della foresta manifestava, sotto molti aspetti, una migliore bio-diversità e un miglior equilibrio ecologico…

Da una politica volontaristica di ricostruzione della foresta secondo i loro piani, gli ingegneri forestali sono passati ad una politica più duttile di accompagnamento della rigenerazione naturale della foresta… Non si trattava di rinunciare ad ogni intervento, ma, piuttosto, con più competenza, di accompagnare, in maniera attiva e vigilante, un processo di rigenerazione naturale…“Giovani piantine di alberi di varie specie sono cresciute. Il nostro lavoro è stato allora di liberarle delicatamente, di accompagnarle, di accogliere la vita della natura invece di credere che fosse scomparsa, invece di reimpiantarla artificialmente”.

… Anche la Chiesa ha conosciuto, soprattutto da una quarantina d’anni, un uragano. Il panorama religioso, almeno nelle sue espressioni tradizionali, è devastato. Certo, il paragone non può diventare norma: l’umanità non è una foresta e gli esseri umani non sono delle piante. Ma ciò che ci interessa, analogicamente, per il nostro scopo, è il cambiamento di atteggiamento dei forestali: il loro passaggio da una politica volontaristica di ricostruzione della foresta ad una politica di accompagnamento, attiva e lucida, di una rigenerazione in corso. Non si dovrebbe operare lo stesso passaggio anche in pastorale: passaggio da una pastorale di “conservazione” (d’encadrement) a una pastorale di “accompagnamento” (d’engendrement)? (André Fossion).

fratel Enzo Biemmi



[1] GIUSEPPE MORANTE, I catechisti parrocchiali in Italia nei prima anni ’90. Ricerca socio-religiosa, Elledici 1996; GIUSEPPE MORANTE, VITO ORLANDO, Catechisti e catechesi all’inizio del terzo millennio. Indagine socio-religiosa nelle diocesi italiane, Elledici, 2004.

[2]Passaggi di vita, passaggi di fede, passaggi di Chiesa, Atti del XLI Convegno Nazionale dei Direttori UCD, Vasto Marina (Ch), 18-21 giugno 2007, Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale, anno XXXVI, n. 3, settembre 2007, 114-118.

[3]P. BIGNARDI, La via del dialogo e la pluralità dei cammini, in Il Primo Annuncio, Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale, anno XXXVI, n. 1, aprile 2007, 81-84.

[4]Per questa parte riprendo le intuizioni di F. G.Brambilla, Partenza da Verona, in «La Rivista del Clero Italiano»  87 (2006).

[5]CEI, nota past. «Rigenerati per una speranza viva», n.12, in ECEI 8/1678.

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