Narrare il vangelo cuore di un umanesimo di misericordia

Diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo

Convegno dei  catechisti

NARRARE IL VANGELO CUORE DI

UN UMANESIMO DI MISERICORDIA

Secondo giorno

don Salvatore Soreca

 

 

 

Christophe Theobald, parlando all’equipe europea dei catecheti, nell’anno 2011, ha affermato che: «La fede dunque ha una storia»[1] Egli ci ricorda che c’è una rivelazione avvenuta definitivamente nella vicenda di Gesù il nazareno e nelle storie dei suoi incontri diversificati con le persone, ma che Dio continua a fare storia con l’uomo. Noi constatiamo che, dopo la grande storia di salvezza canonica narrata nel primo e nel secondo Testamento, le storie di conversione e di fede si sono moltiplicate, fino ad oggi. Come, comunità viva, siamo chiamati a valorizzare la storia della Chiesa e di ogni suo membro come storia di salvezza, una salvezza in corso. Fermo restando il riferimento normativo dei testamenti canonici, non è sbagliato pensare che la storia di ogni singolo battezzato ha un valore potremmo dire “testamentario” scritto con l’inchiostro dello Spirito nella vita delle persone. La Chiesa ha già tante volte riconosciuto l’agire dello Spirito nella vita dei santi e allo stesso tempo ha tante volte disconosciuto vissuti e pratiche lontane dal vangelo. Spetta a noi continuare questa opera di discernimento, considerare che trasmettere la fede, prima ancora che comunicare un contenuto chiaro e sintetico è raccontare le meraviglie che il Signore Gesù opera nella nostra vita; è raccontare quelle situazioni uniche e particolari di incontro che hanno generato la fede nella nostra vita e che potrebbero generare possibilità di fede nella vita di coloro che ci ascoltano; è, in sintesi, raccontare la misericordia con la quale ogni giorno Dio Padre, in Cristo suo Figlio e per l’opera dello Spirito, vivifica la nostra vita. Nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordi al n. 2 papa Francesco afferma:

Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato.

In questo secondo intervento rifletterò con voi, sul narrare la fede come via preferenziale per mostrare il volto misericordioso del Padre e raccontare l’amore redentivo del Figlio.

  1. La fede una storia di racconti

 

Nella sinfonia dei linguaggi della fede, la narrazione non appare come uno tra di essi, ma come quello genetico e sorgivo per tutti. Ogni linguaggio della fede, liturgico, dogmatico, sintetico, nasce dalla memoria di un evento e del suo rinnovato ed interrotto racconto. Come vedremo dopo, anche se nella storia della stesura del nuovo testamento le prime testimonianze sono ascrivibili a inni liturgici e al genere letterario dell’epistola (mi riferisco a Paolo), questi ultimi hanno necessariamente la loro genesi nel racconto di un evento attuale e vivo: la vita di Cristo Gesù. In sintesi, possiamo affermare che la fede cristiana sta volentieri sul terreno dei racconti, perché essa è la storia di un evento accolto, vissuto e raccontato. È la storia che Dio ha deciso di vivere con l’uomo con eventi e parole come dice Dei Verbum; è l’evento dell’autocomunicazione di Dio all’uomo, quindi incontro che salva e che genera continuamente il flusso del racconto.

La più antica professione di fede del popolo di Israele è il racconto di questa storia (Dt 26, 5-9), un racconto che Israele deve custodire e trasmettere perché la memoria resti viva, perché nel memoriale ogni Israelita si senta soggetto vivo di una storia sempre nuova. La stessa dinamica la leggiamo nella prima lettera di Giovanni (1Gv 1, 1-4) in cui viene restituita alla comunità l’esperienza dei primi testimoni. I vangeli sono la storia che i testimoni hanno vissuto e hanno raccontato; sono il racconto dei tanti incontri salvifici che Cristo Gesù ha vissuto con gli uomini e le donne del suo tempo. Gesù stesso è il narratore nel Vangelo, perché in ciò che dice e fa, dall’inizio della sua missione al suo termine, egli racconta il volto amorevole del Padre (Lc 15, 11-32).[2] Il padre della parabola di Lc 15, è Dio, padre di ogni misericordia. Ma è anche Gesù, poiché come lui egli «accoglie i peccatori e mangia con loro» (2). Come il Padre egli è colui che dà (22b), colui che dà da mangiare (23a) ed è colui che si dona, che ci viene donato come cibo ogni giorno. La misericordia che la parabola racconta è la misura dell’amore di Dio rivelata nella vita di Gesù; la stessa misura di amore di cui lui ci rende capaci (Gv 15,12; Mc 8,34):

Insomma, la misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono[3].

La comunità cristiana si immerge nel solco vivo della narrazione evangelica, raccontando; e sono i racconti a generare la professione di fede, la sua celebrazione, la sua comunicazione nello spazio culturale, la sua sintesi nelle formule dogmatiche e la condotta di vita dei battezzati. Il racconto anima tutto l’agire della comunità ecclesiale, perché solo il racconto ha la capacità, proprio perché evocativo, di immergere nell’attualità dell’incontro redentivo con Cristo. La verità cristiana, prima che ragionevole è relazionale. Di conseguenza anche l’accoglienza di questa verità non può avvenire fuori dallo spazio relazionale. È in forza del carattere storico e relazionale della fede cristiana che il racconto delle storie di Dio e con Dio rappresenta il modo adeguato di accedere alla fede e di permetterne l’accesso.

  1. La fede ha una storia

Per noi uomini e donne immersi nella cultura dell’evento, affermare che la fede ha una storia ed è storia, non è affatto scontato e di facile comprensione. Siamo abituati a consumare eventi, a vivere esperienze spesso senza legami: tutto ciò che succede o quasi tutto viene considerato provvisorio o letto unicamente nella logica utilitaristica del consumo. Tale riflessione però non costituisce un dato di fatto insuperabile, ma può, come è accaduto nei secoli passati, essere occasione perché la comunità ecclesiale approdi ad un intelligenza più matura della fede e della rivelazione.

È una condizione che interroga il modo in cui accade l’accesso alla fede oggi e quindi la possibilità di riflettere prassi ecclesiali che lo facilitano e lo sostengono. Come accennato sopra, prima che contenuto da consegnare, l’atto di fede ha una natura essenzialmente relazionale, perché da un lato dice l’incontro del soggetto con il Signore che si rivela e dall’altro dice la relazione che c’è tra la comunità ecclesiale e coloro i quali desiderano rendere tale incontro possibile nella propria vita. Solo in questa configurazione profondamente relazionale si comprende il legame intrinseco tra fede e narrazione: parlare della fede in termini di “accesso” vuol dire parlare della storia di coloro che sono implicati nella relazione, nell’incontro, e il racconto è l’unica forma adatta: il racconto è intimamente legato alla costituzione della stessa fede. Se prendiamo i diversi episodi di conversione raccontati da Vangelo, possiamo sottolineare immediatamente il carattere relazionale della storia raccontata. L’evento della conversione ha un profondo carattere relazionale. Non si tratta solo della relazione di Gesù con il protagonista, ogni evento è un intreccio di relazioni. La questione centrale della relazione tra Gesù e coloro che incontra è l’accesso alla fede, una fede che sgorga dal cuore di colui che egli incontra (la tua fede ti ha salvata). Solo nell’incontro con il Maestro si rivela l’origine teologale della fede; il discepolo scopre che ciò che lo fa vivere in presenza del Nazareno scaturisce dal profondo della sua esistenza toccata da un Dio che vuole che il suo vangelo sgorghi dalla bocca di Gesù che lo annuncia e dall’intimo di coloro che egli incontra. La fede è quindi legata ad un dire, al racconto e all’interpretazione che la comunità ecclesiale ha fatto degli eventi che hanno caratterizzato la vita di Gesù.  La narrazione evangelica si è, quindi, progressivamente mostrata come strutturalmente legata alla fede e all’evento storico che ne descrive il sorgere, insieme plurale e unificato, attorno all’itinerario globale di Gesù di Nazareth. In altre parole la fede stessa obbedisce ad una struttura narrativa e questo per il suo carattere relazionale e testimoniale.

Se dunque il racconto è intimamente legato all’evento della costituzione della fede, possiamo capire che i racconti evangelici non sono solo un genere tra gli altri ma hanno una ragione d’essere propriamente teologica. «I vangeli sono dei racconti che non mettono solamente in scena l’itinerario di Gesù, dall’inizio alla fine, ma anche contemporaneamente ciò che egli diviene in e per coloro il cui itinerario incrocia il suo».[4] In essi quindi sono raccontati simultaneamente l’itinerario di Gesù e le vite di coloro che Lui incontra. In tale senso i Vangeli sono una trama di incontri e relazioni vive che per la sua intrinseca natura relazionale genera una trama di relazioni nuove e vive: la comunità ecclesiale.

Il Concilio Vaticano II ci ha detto che la rivelazione è l’atto di auto-comunicazione divina ad ogni uomo che si compie nell’annuncio del Figlio di Dio.  In tale senso una comunità che vuole iniziare all’atto della fede in Cristo Gesù non può non porsi in ascolto di quella fiducia profonda e intima verso la vita che sgorga nel cuore di ogni uomo; è una esperienza originaria che ha come origine l’assoluta gratuità dell’atto rivelativo di Dio e che ha natura essenzialmente relazionale. Sapersi porre in ascolto delle soglie di vita in cui tale fiducia sgorga è vivere l’atteggiamento diaconale di Gesù; è avere la possibilità di immergere la tensione di questa fiducia originaria nella fiducia in Gesù Figlio di Dio, suo completamento; è illuminare i racconti di vita con cui essa si manifesta con il racconto evangelico. In altri termini la comunità realizza la bellezza dell’annuncio: l’essenziale della vita, che manifesta questa fiducia originaria, è toccato dall’essenziale della fede in Cristo Gesù, dalla bellezza del suo amore:

Questo amore è ormai reso visibile e tangibile in tutta la vita di Gesù. La sua persona non è altro che amore, un amore che si dona gratuitamente. Le sue relazioni con le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico e di irripetibile. I segni che compie, soprattutto nei confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione. Gesù, dinanzi alla moltitudine di persone che lo seguivano, vedendo che erano stanche e sfinite, smarrite e senza guida, sentì fin dal profondo del cuore una forte compassione per loro (cfr Mt 9,36).[5]

La fede ha una storia. È un evento differenziato in se stesso e ogni volta diverso secondo la vita di colui nel quale si dà nella sua forma originaria a completa. Ad essa non si accede per un contenuto estrinseco; il centro è l’evento in cui accade l’accesso e il racconto come catalizzatore di altri eventi. Si tratta di essere attenti alla vita di quanti la comunità incontra; di vivere relazioni sincere per leggere insieme la vita, per comprende che la fede, quale sia la sua forma, vi è già accaduta (la tua fede ti ha salvato).

  1. Generare alla fede è narrare la fede[6]

Una convinzione sottende l’attenzione alla narrazione: quando è in gioco il mistero di Dio e del suo Cristo, lo scambio tra il padre e il figlio o figlia, tra la madre e i suoi ragazzi, è uno scambio che non ha confronti. Altre figure e testimoni intervengono certamente nella vita dei figli. Ma ciò che un padre e una madre dicono di Dio, in quanto passatori di Dio, è senza uguali per il figlio che cresce, per l’adolescente e per il giovane adulto. La parola dei genitori è portatrice di un carico di vita che gli stessi genitori sono lungi dall’immaginare. Il mistero del Dio d’Israele e quello del Cristo del Vangelo sono affidati in modo sorprendente alle risorse del racconto e al suo potere di parlare a tutte le generazioni. Intorno a questa storia si intreccia più e più volte la storia delle famiglie. Generare alla vita, come alla fede, significa raccontare. Trasmettere al figlio la fede, equivale per noi a trasmettergli qualcosa di essenziale per la vita che gli permetterà di affrontare le acque profonde e di osare attraversarle. Nel momento in cui le tecniche di comunicazione si fanno sempre più sofisticate, è importante riattivare un gesto elementare, un gioco di parole immemore ma antico quanto l’essere padre e l’essere madre, quello del raccontare: «Mio padre era un Arameo errante…» (Dt 26,5). Compiere il passo della narrazione significa ritrovarsi al fianco di quel narratore consumato che era Gesù, significa coniugare la propria storia personale con quella del racconto evangelico per scoprire di essere un protagonista misterioso, impegnato in un cammino pasquale al seguito del Cristo.

Nel capitolo 13 dell’Esodo, l’ingiunzione ai padri diventa l’ingiunzione rivolta a ciascun padre: «Quando tuo figlio domani ti chiederà:  “Perché?” tu gli risponderai: “Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile”» (Es 13, 14). Qui l’ingiunzione nasce da un confronto tra il bambino che fa le domande e l’adulto che risponde. Il braccio potente non è quello del padre, è quello di Dio. Il Padre di Esodo racconta la potenza di un Altro, intervenuto con Braccio potente. Questa è la sorpresa della narrazione biblica: il padre si qualifica qualificando un Altro più potente di lui, e di una potenza unica nel suo genere. Potremmo dire che è dalla domanda del figlio che sorge la paternità; il figlio chiedendo al padre il perché del suo essere mette lo stesso padre in condizione di essere padre; allo stesso modo, le nuove generazioni chiedendo alla comunità ecclesiale il perché del suo essere, mettono la comunità nella condizione di essere grembo che genera alla fede. Per il padre rispondere al figlio significa rispondere del figlio; per la comunità rispondere alla nuove generazioni, accompagnare le nuove generazioni è rispondere di loro.  Potremmo dire che la generazione è di natura, mentre la paternità è di designazione. Nel rispondere al figlio in realtà il padre fa posto a Dio che per primo risponde del figlio. La risposta del padre è la rivelazione di un Altro e della sua presenza nella vita delle nuove generazioni. C’è dunque da rispondere sempre al figlio raccontandogli la storia, quella dell’esodo, delle parabole della resurrezione. Queste storie, infatti, fanno entrare padre e figlio in una storia comune, una storia di salvezza in chiave paterna. Bisogna almeno cominciare a farlo, perché la storia raccontata sia anch’essa una storia nella vita del bambino. Narrare, quindi, va di pari passo con il dono della vita; è il dono della vita prolungato.

Il Dio che ha intimato all’uomo «siate fecondi e moltiplicatevi» è quello che intima al padre di famiglia: «ti alzerai a raccontarlo a tuo figlio». La responsabilità dei genitori, degli adulti, quando si tratta di rispondere al figlio che interroga è, ancora e sempre, un luogo senza pari dove l’ispirazione torna a risuonare. Trasmettere e riformulare i racconti della Bibbia alla generazione che viene, ai figli che si alzeranno a raccontarlo ai loro figli significa collocarsi nella fucina dell’ispirazione, dove altri padri, mossi dallo Spirito di Dio, hanno raccontato come hanno raccontato. In tale senso, proprio del racconto dei padri è aiutare il figlio ad essere consapevole di essere impegnato in una uscita, in un esodo che lo mette in libertà e questo perché la paternità esercitata nel legame genitoriale rimanda ad un’altra paternità, quella di Dio, che ha fiducia nella paternità dell’uomo tanto da mettere sulle sue labbra il racconto e il poema di salvezza: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli, diremo alla generazione futura le lodi del Signore, la sua potenza e le meraviglie che ha computo» (salmo 78).

Come già accennato  non è solo della paternità il compito di narrare la fede. Anche la maternità ha un ruolo specifico nella narrazione della vita. In effetti quella della nascita e della morte è una narrazione materna, singolare e riducibile, strettamente legata alle soglie dell’esistenza. Nell’esistenza dei figli e delle figlie le madri raccontano e profetizzano una nascita, fin nella morte. In particolare le madri sono custodi della nascita delle nascite: della resurrezione. Essendo una nascita alla vita di Dio, al di là dell’angustia della morte, la risurrezione è confidata all’inizio a delle donne, esperte della vita che nasce. Le esperte, però, qui si ritrovano interdette, e il finale di Marco è particolarmente eloquente in proposito: «Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura» (Mc 16,8). Le donne sono le prime all’appuntamento della vita risuscitata; lo sono in ragione della loro premura, che le porta al sepolcro, e in ragione dell’annuncio dell’angelo che viene al loro cospetto. Sono loro le prime, e lo saranno di generazione in generazione perché la risurrezione è quel che è: un mistero della vita. È il canto di ciò che nessuno sa, il canto del segreto della vita: nel canto delle madri, delle donne della resurrezione, delle madri credenti alla generazione che viene, si trasmette il magnifico segreto della vita che rinasce.

In conclusione Dio è il Dio della sequenza delle generazioni, interamente rimesso a ciò che un padre o una madre possono trasmettere al proprio figlio, della vita e del segreto stesso della vita; lo stesso Dio è anche il faccia a faccia di ognuno, vivificando tutte le generazioni. Se si deve raccontare alla generazione che viene, si deve anche leggere bene il racconto: le generazioni sono scavalcate dal Signore della vita, che raggiunge e vivifica ognuno nel mezzo dei suoi giorni. Il Risorto si rende presente alle generazioni fino alla fine della storia ed è forse questo il cuore della narrazione alla generazione che viene e si rende presente mostrando il volto misericordioso del Padre nella concretezza dell’amore di color che sono chiamati ad amare così come lui ci ha amati (Gv 15, 12) (MV 6):

Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri.[7]

  1. La Chiesa comunità narrante

La narrazione e l’ascolto delle storie di vita appartengono alla prassi originale della fede biblica-cistiana. Per questo motivo la Chiesa è una comunità narrante che fa memoria, la sua credibilità «passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole» (MV 10). Le personali storie di fede, di perdono, con le loro parziali interpretazioni teologiche sono irrinunciabili per l’annuncio della fede della Chiesa, e ogni individuo esprime con la sua storia un carisma che nell’interazione comunicativa diventa per l’altro fonte di fede. Nella profondità dell’esperienza personale di Cristo, ogni credente è soggetto attivo nella ri-espressione e ri-comprensione della Parola Rivelata in comunità, la quale, allo stesso tempo, plasma la sua vita.[8]

La struttura narrativa della fede invita ad una concezione della fede orientata all’incontro che non consiste anzitutto nell’adesione del singolo alla totalità della tradizione, ma, piuttosto, nella comunicazione delle proprie esperienze personali di fede, necessariamente limitate e parziali, nel dialogo con gli altri credenti così da ricevere stimolo, correzione e completamento dal confronto con le esperienze di fede dell’altro. Nella misura in cui i battezzati, nella narrazione delle loro storie personali di fede, raccontano quanto il Verbo ha operato nella propria vita, si rivela la bellezza della comunità ecclesiale. La narrazione e l’ascolto delle singole storie personali di fede nell’orizzonte della tradizione biblica e del discernimento del magistero, è perciò costitutivo non soltanto dello sviluppo dell’identità del singolo credente, ma anche per la costruzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale.[9]

Le storie di conversione e di perdono, ricevuto e donato, che costituiscono la trama del tessuto ecclesiale sono il nucleo generatore di un annuncio che sempre più deve configurarsi «come annuncio gioioso di perdono» (MV 11). A mio avviso è qui la chiave di volta di un annuncio per un umanesimo di misericordia. Con forza il Papa afferma che «è il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde coraggio per guardare al futuro con speranza» (MV 11). Il perdono è il cardine di un agire ecclesiale che ha nella misericordia il proprio centro determinante; potremmo dire basta a prassi ecclesiali di riconquista, di muro contro muro, di scontro; è il tempo di aprirci a ciò che identifica l’agire di Dio nelle tre parabole della misericordia di Lc 15: l’andare in cerca, il correre verso.

Sono i verbi dell’iniziativa misericordiosa di Dio: il pastore e la donna delle prime due parabole (Lc 15, 1-10) vanno in cerca, non si arrendono all’idea di aver perso la pecora e la dramma; vanno alla ricerca, una ricerca spasmodica, una ricerca amorevole che dice il desiderio, non tanto di ritrovare e basta, ma di riportare la pecora dalle altre per gioire, di condividere con gli altri la gioia per la moneta ritrovata. Insomma il fine della misericordia è sempre la gioia di ritrovarsi con gli altri; è la gioia della condivisione di una vita ritrovata. Il correre verso è il verbo che scandisce la premura misericordiosa del Padre di Lc 15, 11-32; è precedere l’altro nel desiderio di rivelare quanto il perdono guarisce, restituisce alla vita e ridona l’identità perduta (Presto, portate il vestito più bello e vestitelo, dategli l’anello al dito e il calzare ai piedi):

È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia[10].

Un annuncio intriso di perdono è il sacramento della misericordia di Dio ed è la via che oggi lo Spirito suggerisce alla Chiesa per ridonare dignità all’uomo oppresso e schiacciato dalle ingiustizie, dalle povertà, dalle divisioni, dalle emarginazioni, dalla violenza, insomma dal male e dal peccato:

La Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia – il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore – e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice.[11]

La comunità ecclesiale è tutta narrativa. Nel suo modo di essere e di organizzarsi, di esercitare l’autorità, di gestire le risorse umane ed economiche, di valorizzare i carismi e i ministeri, di stabilire il rapporto con la cultura e le atre religioni, di entrare nel dibattito etico, in una parola nel modo in cui sta nel mondo, la chiesa racconta la sua identità e quella di Dio. La chiesa è credibile e abitabile nella misura in cui diventa narrazione viva di Dio che si è rivelato i Gesù Cristo, se diventa storia in atto di quanto attestano le scritture.

Il suo essere racconto vivente della grazia di Dio è il livello decisivo della sua testimonianza. Questo richiede che tutto lo stile di vita della comunità sia narrativo e che essa divenga luogo ospitale di racconti, la famiglia in cui ognuno può condividere il suo racconto, lo spazio accogliente in cui si intrecciano le storie degli uomini, nella quali, come detto, la fede è già data nella diversità delle sue forme, storie umane e per queste storie degne di Dio.

La fede è narrativa perché nasce da un evento dalla sua costante memoria e dal suo ininterrotto racconto. L’entrata nella fede non può non avvenire che attraverso un processo che attualizza questo racconto e permetta di sperimentarlo. La Chiesa è il luogo ospitante della narrazione dell’amore di Dio e il racconto vivente della grazia. Dentro una Chiesa tutta narrativa prendono forma i riti perché l’agire grazioso di Dio continui nella storia di ognuno, nasce il Simbolo come sintesi, l’arte, gli orientamenti etici, in una parola nasce tutta la vita ecclesiale. Auguro alla chiesa di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo di essere sempre più con le sue parole e la sua vita narratio plena delle meraviglie di Dio, in quale modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1).

[1] C. Theobald, La fede ha una storia. La struttura narrativa della trasmissione e la sua regolazione ecclesiale in, a cura di E. Biemmi – G. Biancardi,  La catechesi narrativa, elledici, Leumann (To) 2012, 47.

[2] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del giubileo straordinario della misericordia, 11 aprile 2015, 9.

[3] Francesco, Misericordiae Vultus, 6.

[4] C. Theobald, Points de départ de la christologie, in J. Dorè – C. Theobald (edd), Penser la foi. Recherches en théologie aujourd’hui. Mélanges offerts à Joseph Mongt, Paris, Cerf – Assas, 901-902.

[5] Francesco, Misericordiae Vultus, 8.

[6] Le idee sono riprese dal testo: J.-P. Sonnet, Generare è narrare, Vita e Pensiero, Milano 2014.

[7] Francesco, Misericordiae Vultus, 9.

[8] Cfr. S. Noceti, Educare nella comunità cristiana, co-educarsi come comunità, in P. Zuppa (a cura di), Apprendere nella comunità. Come dare «ecclesialità» alla catechesi, Elledici, Leumann (TO) 2012, 83.

[9] Cfr. Noceti, Educare nella comunità cristiana, co-educarsi come comunità, 86.

[10] Francesco, Misericordiae Vultus, 12.

[11] GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, Lettera Enciclica, 15.

Narrare il Vangelo cuore di un umanesimo di misericordia

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